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Agrifoodtech in Italia enormi potenzialità ma pochi finanziamenti 

Roma, mercoledì 16 ottobre 2024 – Creare nuove opportunità strategiche per la catena del valore agroalimentare del Made in Italy attraverso investimenti nella transizione tecnologica che stimolino un legame virtuoso tra imprese ed ecosistema delle startup e dell’innovazione. È questo l’obiettivo del convegno promosso al Senato in occasione della Giornata Mondiale dell’Alimentazione da Federalimentare, Riello Investimenti Sgr con il suo fondo Linfa e dal Centro di Ricerca Luiss X.ITE, dal titolo “Federalimentare guarda al futuro. La transizione tecnologica dell’agroalimentare Made in Italy”. Il tema chiaveè la transizione tecnologica dell’agroalimentare, un processo ineludibile e non procrastinabile per mantenere la global leadership del nostro Paese, potenziando al contempo sostenibilità e competitività delle imprese italiane.

Filiera del cibo in Italia

Secondo i dati più recenti del Rapporto Federalimentare-Censis, il settore agroalimentare aggregato, che comprende agricoltura, industria, distribuzione e ristorazione, con i settori di beni e servizi interdipendenti in una logica B2B (business-to-business), genera oltre 600 miliardi di euro di fatturato, contribuisce a circa il 32% del PIL, ha 1,3 milioni di imprese e più di 3,6 milioni di occupati, con una crescita di tutti i principali indicatori di performance confermata anche nel 2023 (+7,1% del fatturato, + 6,6% dell’export). Inoltre, la catena del valore dell’agroalimentare italiano non è solo rappresentata dall’eccellenza dei prodotti alimentari e dai suoi marchi Doc, Igp e Docg, ma anche dalla tecnologia manifatturiera (primo comparto del manifatturiero italiano), dalla leadership nella produzione di impianti di trasformazione e di packaging, dalla capacità logistica e, non ultimo, da brevetti e innovazioni esportati in tutto il mondo.

Il G7 e il contributo della Scienza e dell’Innovazione alla sostenibilità

Al recente “G7 – Agricoltura e Pesca” è stata, ancora una volta, sottolineata la necessità di investire responsabilmente in agricoltura sostenibile e in sistemi alimentari in grado di fornire cibo sicuro, e di qualità per tutti, riducendo le perdite e gli sprechi alimentari, dalla produzione al consumo. La filiera globale del cibo, infatti, produce circa il 32% dei gas serra totali (fonte FAO 2024), non può quindi esserci una lotta al riscaldamento globale che non passi per la trasformazione della filiera agroalimentare. In questo scenario, il documento finale del G7 ribadisce il contributo che la scienza e l’innovazione possono dare per mitigare il cambiamento climatico e per rispondere alla domanda di cibo sicuro a livello globale. Il ruolo dell’innovazione tecnologica nell’accompagnare la transizione dell’agroalimentare, insomma, è una indiscussa priorità per mantenere la leadership globale della filiera del cibo italiano.

Ecosistema Agrifoodtech in Italia

A fronte di queste enormi opportunità, l’ecosistema dell’innovazione Agrifoodtech in Italia è ancora in una fase embrionale. Il 2023 ha visto investimenti complessivi per circa 250 milioni di euro (Fonte: AGfunder), significativamente inferiori agli investimenti in startup innovative del settore Agrifoodtech nei principali paesi europei, e incomparabile rispetto alla Silicon Valley. Inoltre, un’analisi di Forward Fooding ha indicato che l’Italia è al 4° posto in Europa per numerosità di startup Agrifoodtech, ma solo al 10° per capitali raccolti.

Osservatorio sulla transizione tecnologica dell’agroalimentare

La partnership tra Federalimentare, il fondo Linfa gestito da Riello Investimenti Sgr e il Centro di Ricerca Luiss X.ITE nasce quindi con l’obiettivo di creare un legame virtuoso tra imprese ed ecosistema delle startup e dell’innovazione, al fine di stimolare crescita dell’innovazione e scala economica della nuova imprenditorialità tecnologica. Il tutto, col fine ultimo di accelerare l’adozione di nuove tecnologie e sviluppare un ecosistema che sostenga lo sforzo innovativo che tutte le imprese italiane stanno affrontando. Uno sforzo che dovrà essere gestito con ancora maggiore vigore a partire da una maggiore consapevolezza dell’ecosistema delle startup e delle tecnologie per la trasformazione dell’agroalimentare Made in Italy. Ragione per cui Federalimentare promuove con il Centro di Ricerca Luiss X.ITE e il contributo del fondo Linfa gestito da Riello Investimenti Sgr un “Osservatorio sulla Transizione Tecnologica dell’Agroalimentare Made in Italy”.

Per il Presidente di Federalimentare Paolo Mascarino“Siamo consapevoli che la strada per continuare a essere competitivi sui mercati globali non possa prescindere dall’innovazione tecnologica per continuare a produrre cibo di qualità, sicuro e sostenibile, di gusto unico e inimitabile. La competitività e la concorrenza a livello globale sono le sfide che ci attendono, e l’industria alimentare italiana deve sostenere e far crescere il suo vantaggio competitivo. Il “Rapporto Draghi” sulla competitività europea ha richiamato la responsabilità degli Stati membri a promuovere sforzi collettivi per colmare il divario di innovazione con gli Stati Uniti e la Cina. Questo messaggio non deve rimanere inascoltato, ma attuato. E per innovare con successo, le imprese hanno bisogno del contributo delle università, dei centri di ricerca, di politiche pubbliche di sostegno alla ricerca e delle istituzioni finanziarie. Per questo Federalimentare ha deciso di avviare e sostenere l’Osservatorio sulla Transizione Tecnologica dell’Agroalimentare Made in Italy, in collaborazione con il Centro Ricerche X.ITE dell’Università Luiss, e anche di collaborare con il Fondo Linfa di Riello Investimenti Sgr, dedicato al sostegno dell’innovazione sostenibile del settore agroalimentare. Queste attività, unite alle altre iniziative in corso con il Cluster CLAN Agrifood, saranno fondamentali per le imprese del nostro settore, per continuare a innovare e restare competitivi sui mercati internazionali”.

Secondo Nicola Riello, Founder e Presidente di Riello Investimenti Sgr: “Il settore agroalimentare ricopre un ruolo di primo piano per l’economia italiana e anche nei nostri investimenti è trasversalmente presente in tutte le asset class che gestiamo. In questo momento storico, in cui 

assumono particolare rilevanza le transizioni tecnologica e ambientale, riteniamo che sia particolarmente importante investire sul tema delle tecnologie nell’agroalimentare ed è su questo 

presupposto che abbiamo deciso di ampliare la gamma dei fondi gestiti con il fondo Linfa, estendendo così il nostro intervento a realtà più giovani, dinamiche e in forte crescita. 

Siamo onorati della collaborazione con Federalimentare. Insieme riusciremo a raggiungere due importanti obiettivi comuni: lo sviluppo e la crescita dell’ecosistema dell’Agrifoodtech in Italia e la mappatura dei progressi attraverso un Osservatorio appositamente formato presso l’università Luiss di Roma. Ciò ci consentirà di contribuire ulteriormente allo sviluppo del Sistema Paese Italia e di offrire ai nostri investitori sempre nuove opportunità di investimento di grande qualità.”

Per Marco Gaiani, Founder & Partner del Fondo Linfa gestito da Riello Investimenti Sgr: “In Italia ci sono tutte le condizioni per la creazione di un ecosistema innovativo nel food di livello europeo: talenti, imprenditorialità diffusa, tradizione e cultura del cibo, know how industriale e Università di ottimo livello. Questa sfida è ancora più importante se si prende in considerazione il ruolo che l’innovazione può giocare per la transizione della filiera agroalimentare italiana verso modelli più sostenibili di produzione e distribuzione.  Come Team di Linfa – primo fondo italiano focalizzato sull’Agrifoodtech a impatto ambientale – intendiamo dare il nostro contributo di competenze e capitali per andare in questa direzione. La partnership con Federalimentare è un tassello fondamentale di questa strategia”.

Michele Costabile, Università Luiss “Guido Carli” di Roma, Direttore del Centro di Ricerca Luiss X.ITE su tecnologie e comportamenti di mercato, ha affermato: “Siamo onorati di essere ancora una volta al fianco di Federalimentare nell’esplorare una delle più importanti transizioni tecnologiche per il nostro Paese. Intendiamo, infatti, servire le migliaia di imprese dell’agroalimentare Made in Italy, fornendo periodici report e outlook sulle dinamiche della trasformazione tecnologica e sull’ecosistema dell’innovazione. E riteniamo che, anche grazie alla partnership con il team del fondo Linfa, potremo produrre risultati connotati da rigore metodologico e rilevanza per il business. L’Osservatorio sostenuto da Federalimentare adotterà diversi modelli di classificazione delle innovazioni agrifoodtech per servire tanto la business community quanto la comunità degli innovatori e quella degli investitori in agrifoodtech. Il tutto rafforzando attraverso conoscenze condivise e momenti di confronto periodico quelle connessioni che servono a rendere l’Agrifoodtech made in Italy un ecosistema di valore globale”.

Gian Marco Centinaio, Vicepresidente del Senato, ha inviato una lettera al Presidente di Federalimentare Mascarino, rilevando che “Federalimentare guarda al futuro” “non è un titolo programmatico, è già una realtà. L’iniziativa è un passo in più nella giusta direzione, perché mette insieme il mondo delle imprese, quello della finanza e quello della ricerca. In Italia abbiamo eccellenze in tutti e tre i campi. Il quarto soggetto in questo confronto devono essere le Istituzioni. In Parlamento siamo riusciti a dare il via libera alle TEA, abbiamo tutelato la qualità dei nostri prodotti, riconosciuto il principio che l’agricoltore è il primo custode del territorio, allontanato lo spettro della sugar tax. Sono esempi concreti, che dimostrano come sia importante che pubblico e privato continuino a lavorare insieme per valorizzare la filiera agroalimentare made in Italy. Sono certo che Federalimentare saprà mantenere quello sguardo rivolto al futuro, che ha sempre caratterizzato la sua azione”.

Per l’On. Alessandro Morelli, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri (Coordinamento della Politica Economica e di Programmazione degli Investimenti Pubblici): “Il settore agroalimentare italiano rappresenta una delle eccellenze mondiali e ha la possibilità di guidare una vera rivoluzione produttiva grazie alle nuove tecnologie. Le potenzialità sono immense: 

l’agricoltura di precisione, l’uso dei big data, l’intelligenza artificiale e la blockchain possono migliorare l’efficienza delle aziende agricole, ridurre gli sprechi, e garantire ai consumatori una tracciabilità completa e trasparente dei prodotti. È essenziale investire in formazione e ricerca, collaborando con università, centri di innovazione e imprese private, affinché le soluzioni più avanzate siano applicabili anche alle realtà agricole più tradizionali, senza lasciare indietro nessuno. Questa transizione tecnologica, tuttavia, deve avvenire all’insegna della sostenibilità che sappia coniugare i costi economici con quelli sociali. Non possiamo più permetterci un modello produttivo che ignora l’impatto ambientale e che non vada di pari passo con la tutela del lavoro. Oggi le tecnologie ci offrono strumenti che permettono di conciliare produttività e rispetto per l’ambiente per cui la transizione verso un settore agroalimentare più tecnologico, sostenibile e competitivo è un percorso che dobbiamo affrontare con visione strategica e spirito di collaborazione. La sinergia tra pubblico e privato, sostenuta da politiche istituzionali lungimiranti, è la chiave per garantire che il nostro agroalimentare non solo continui a rappresentare un’eccellenza a livello globale, ma diventi un modello di innovazione e sostenibilità per tutto il mondo”.

Secondo l’On. Massimo Bitonci, Sottosegretario al Ministero delle Imprese e del Made in Italy: “L’agroalimentare è un settore estremamente importante in termini di fatturato per il Made in Italy, comprensivo di tutte le aziende che operano nella produzione e nella trasformazione, ambiti nei quali l’Italia è tra i maggiori Paesi europei e non solo. L’innovazione è uno dei principali fattori di sviluppo delle imprese e l’agroindustria, senza dubbio, rappresenta una delle nostre eccellenze. Il settore purtroppo è colpito da quello che viene chiamato “italian sounding’, cioè il tentativo di copiare i prodotti italiani. Le politiche messe in campo dal Governo vanno nella direzione di contrastare tali pratiche e proteggere le nostre imprese”.

Per Alessio Conforti, Responsabile Origination e Relazioni Istituzionali per l’Italia, Grecia, Malta, Cipro e Turchia del Fondo europeo per gli investimenti (FEI, parte del Gruppo BEI): “La proposta avanzata dal Fondo Linfa ha subito raccolto l’attenzione del Gruppo BEI per via dell’unicità con cui la stessa è stata articolata. Il focus su innovazione e AgriFood, il team dedicato, e la forte capacità di valorizzare le migliori realtà Italiane nell’agroalimentare, ha permesso al FEI di completare positivamente la propria due diligence e divenire l’anchor investor del Fondo. Siamo certi che altri investitori riscontreranno nelle loro valutazioni le stesse caratteristiche che rendono il fondo un’eccellenza Europea”.

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Federalimentare

Fondata nel 1982, all’interno di Confindustria, la federazione ha l’obiettivo di sostenere la crescita e lo sviluppo dell’Industria italiana degli Alimenti e delle Bevande. Alla Federazione oggi aderiscono 13 associazioni di categoria che raggruppano 6.850 imprese produttive impegnate a promuovere l’eccellenza alimentare del Made in Italy. Oggi l’industria alimentare è la prima manifattura del Paese con 195 miliardi di fatturato ed è impegnata al fianco delle Istituzioni italiane nel promuovere un modello alimentare sano, equilibrato e sostenibile, basato sui requisiti di sicurezza e di qualità, ed anche nel sostenere la vocazione all’export delle nostre imprese, per portare sulle tavole del mondo i valori della cultura gastronomica italiana, preservando dalle imitazioni e dalle contraffazioni le eccellenze alimentari Made in Italy.

Riello Investimenti SGR

Riello Investimenti SGR è una società di gestione del risparmio indipendente, attiva da 25 anni nel settore degli investimenti di private capital nelle migliori PMI italiane. Offre agli investitori un solido track record e opportunità di investimento multistrategy nelle asset class del private equity, del private debt e più di recente del growth capital. A maggio 2024 ha avviato il fondo Linfa, specializzato sul settore dell’Agrifoodtech, contando su un parterre di investitori di grande rilievo, tra i quali Fondo Europeo degli Investimenti, come anchor Investor, e primari investitori istituzionali, family office e gruppi industriali. Linfa è un Impact Fund e la sua ambizione è quella di supportare soluzioni imprenditoriali che coniugano importanti potenzialità di crescita con un contributo concreto alla mitigazione del cambiamento climatico, all’utilizzo sostenibile delle risorse, alla prevenzione o riduzione dell’inquinamento e alla promozione della transizione verso un’economia circolare. Gli investimenti sosterranno la crescita e lo sviluppo di PMI del settore agroalimentare in fase late stage e growth e con un elevato livello di innovazione di processo, di prodotto e/o di servizio – www.rielloinvestimenti.it

Luiss – X.ITE

È il Centro di Ricerca dell’Università Luiss che interviene sulle dinamiche interazioni fra Tecnologia e Comportamenti di Mercato. Fondato e diretto dal Professor Michele Costabile, fornisce guida e supporto ai leader di imprese e istituzioni attraverso attività di ricerca azionabile e trasformativa (engaged research) su innovazione e cambiamenti di mercato e organizzativi mediati dalle tecnologie. In questa prospettiva opera quale Knowledge Transfer Office in linea con la c.d. terza missione degli Atenei – http://xite.luiss.it/it/

“È con grande piacere che desidero rivolgere i nostri complimenti più sinceri e auguri di buon lavoro a Massimiliano Giansanti eletto presidente del Copa, il Comitato delle organizzazioni professionali agricole che rappresenta oltre 22 milioni di agricoltori in Europa”. È quanto dichiara in una nota il Presidente di Federalimentare, Paolo Mascarino.

“Questo riconoscimento – prosegue – dimostra la professionalità e la competenza del Presidente Giansanti riconosciuta in questi anni alla guida di Confagricoltura e, al tempo stesso, attribuisce all’Italia un ruolo centrale in Europa per le future scelte che investiranno il comparto in un momento di grandi cambiamenti”.

“Per tutto il settore agroalimentare italiano questa scelta è di assoluto valore, ed è un riconoscimento che premia la nostra capacità di essere uniti, credibili e pragmatici dimostrando ancora una volta che l’agroalimentare è un settore virtuoso che concorre all’agenda di sviluppo del Paese”, conclude Mascarino.

G7 Agricoltura, Mascarino (Pres. Federalimentare): “Sfide globali per accesso a cibo sicuro e di qualità”

“Siamo orgogliosi di rappresentare al G7 Agricoltura e Pesca l’industria alimentare italiana portando al centro del dibattito una sfida comune che ci vede impegnati nel garantire sicurezza alimentare, producendo cibo sicuro e di qualità”. Lo ha dichiarato il Presidente di Federalimentare, Paolo Mascarino in occasione del G7 Agricoltura e Pesca di Ortigia.

“Siamo conosciuti nel mondo come dei trasformatori di alimenti sicuri, la nostra industria, in termini di fatturato, è la prima manifattura in Italia e, in un contesto internazionale come il G7 è importante trasmettere un messaggio di fiducia e di responsabilità sociale verso i cittadini e i consumatori che ci chiedono di coniugare alla nostra storia e alle nostre tradizioni, l’innovazione, la scienza e la ricerca tecnologica”. 

“In occasione della Giornata Mondiale della Sicurezza Alimentare da un’indagine elaborata dall’Istituto Piepoli – ha continuato Mascarino – emerse con chiarezza come per gli italiani la scienza, la tecnologia e l’innovazione fossero le soluzioni migliori per contrastare i rischi legati alla sicurezza alimentare e in un appuntamento come il G7, questi temi rivestono un carattere di priorità a livello globale”. 

“Una priorità tracciata dagli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU che prevede lo sviluppo sostenibile del Pianeta e che ci sprona a produrre alimenti sostenibili e per tutti. Come industria siamo consapevoli che gli investimenti nella scienza e nella tecnologia sono gli asset strategici sui quali puntare se vogliamo che la domanda crescente di cibo proveniente dai Paesi in via di sviluppo e dal Sud del Mondo venga soddisfatta. Sono in atto cambiamenti epocali che non riguardano più il singolo Paese ma la nostra capacità di essere competitivi e credibili nei mercati globali. Garantire dunque, alle popolazioni l’accesso al cibo ben fatto, sicuro e di qualità – ha aggiunto – è fra le priorità dell’industria alimentare e come tale sappiamo il ruolo che svolgiamo e che dovremo continuare a svolgere al fianco delle Istituzioni in una sfida di sistema che ci vede da sempre impegnati su questi temi”. 

“Per Federalimentare partecipare al G7 portando il proprio contributo di esperienza e di affidabilità è stato motivo di grande responsabilità e per queste ragioni – conclude Mascarino – desidero ringraziare il ministro Schillaci per la sensibilità mostrata sul tema della sicurezza alimentare e il ministro Lollobrigida per averci offerto l’opportunità di portare all’attenzione dei leader del G7 il contributo dell’industria alimentare italiana sulle sfide globali che ci attendono con una visione pragmatica che per noi è il miglior modo per costruire un’agenda di priorità per lo sviluppo del Paese, per le future generazioni e nelle relazioni internazionali”.

“Federalimentare esprime il suo apprezzamento per la nomina di Raffaele Fitto quale Vicepresidente esecutivo della Commissione Europea, con delega alla Coesione e alle Riforme”. Lo dichiara in una nota il Presidente di Federalimentare, Paolo Mascarino.

“Per l’Italia, per il mondo delle imprese e dell’industria aver ottenuto una vice presidenza esecutiva di così grande prestigio è certamente motivo di orgoglio. Nelle prossime sfide che la nuova Commissione dovrà affrontare, infatti, quella della coesione europea sarà fondamentale per costruire un’Europa più vicina ai cittadini, colmando le differenze economiche, sociali e territoriali attuali che ne hanno limitato la produttività. Una coesione – prosegue Mascarino – che non può prescindere dall’innovazione e della competitività che saranno le due leve per raggiungere gli obiettivi della transizione verde e digitale sulle quali l’Italia e l’Europa sono chiamati a dare risposte nell’interesse comune e che, siamo certi, sapranno trovare in Raffaele Fitto un ottimo interlocutore”. 

“Aver ottenuto una Vicepresidenze esecutiva alla Commissione Europea – conclude Mascarino – è una vittoria per l’Italia e per il nostro sistema Paese al quale viene riconosciuta autorevolezza, credibilità e affidabilità”.

INTOLLERANZA AL LATTOSIO: LA VERA DIMENSIONE DEL PROBLEMA

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

L’intolleranza al lattosio viene spesso confusa con l’allergia al latte, ma si tratta di due fenomeni molto diversi tra loro. L’allergia è più frequente in età infantile e la sua frequenza diminuisce con l’età, mentre la maggior parte (~il 70%) della popolazione mondiale non esprime, in età adulta, l’enzima (lattasi) necessario per idrolizzare il lattosio, e quindi digerire questo zucchero nei due monosaccaridi che lo compongono, il glucosio e il galattosio, e questa carenza dà origine all’intolleranza al lattosio.

La lattasi non è un enzima costitutivamente espresso in abbondanza nel piccolo intestino dei mammiferi. Il neonato umano, ad esempio, possiede livelli molto bassi di lattasi. Questo fatto non deve sorprendere: le madri non producono infatti latte a partire dal primo giorno. La sua produzione inizia dal secondo giorno (con circa 50 ml), aumentando gradualmente di 50 ml/die in parallelo con l’aumento dell’espressione di lattasi nell’intestino del neonato (durante i primi 2 giorni il fabbisogno energetico del neonato è coperto dall’autofagia del tessuto embrionale non più necessario).

La maldigestione del lattosio da parte degli adulti, dovuta all’assenza di lattasi è quindi molto frequente, e rappresenta la norma tranne che in Nord Europa o in Nord America, dove il fenotipo mutante della persistenza della lattasi in età adulta è al contrario la situazione più diffusa.

Perché si possa parlare di intolleranza al lattosio, tuttavia, debbono essere presenti sintomi specifici associati al consumo di lattosio, conseguenti alla fermentazione batterica del lattosio non digerito che raggiunge il colon. La carenza di lattasi comporta la “maldigestione” del lattosio, che di conseguenza porta al suo “malassorbimento”. Solo quando il malassorbimento del lattosio dà origine a dei sintomi (dolori addominali, gonfiore, diarrea ecc.) allora siamo in presenza di “intolleranza” al lattosio. Il malassorbimento del lattosio può essere diagnosticato facendo ingerire una dose standard (25 gr) di lattosio a digiuno e misurando poi l’idrogeno espirato (breath test): elevati livelli di idrogeno nel respiro sono causati dalla fermentazione batterica del lattosio non digerito. Altri strumenti di diagnostica includono la misurazione dell’attività della lattasi in un campione di biopsia intestinale o test genetici per il polimorfismo comunemente legato alla non-persistenza della lattasi, ma queste ultime metodiche diagnostiche non hanno un grande valore nella pratica clinica. In ogni caso può essere poco indicativo anche il breath test al lattosio se durante l’esame non vengono valutati i sintomi del paziente ma ci si affida esclusivamente alla comparsa del picco di idrogeno espirato come purtroppo invece accade abitualmente. Questo dato indica un malassorbimento e non necessariamente uno stato di intolleranza. Viceversa, molti pazienti riferiscono comparsa di sintomi durante l’esame in assenza di una evidenza di malassorbimento. Questo a dimostrazione del fatto che la semplice associazione tra ingestione del lattosio e comparsa dei sintomi porta troppo spesso all’erronea autodiagnosi. Infatti, spesso i sintomi sono una conseguenza della presenza di una sindrome dell’intestino irritabile o di una allergia alle proteine del latte o di una avversione psicologica agli alimenti contenenti lattosio piuttosto che di una vera intolleranza al lattosio.

Dimostrare un malassorbimento di lattosio non indica pertanto che l’individuo in questione svilupperà necessariamente i sintomi e quindi una intolleranza.

Molte variabili determinano se una persona che assorbe male il lattosio riporterà sintomi: tra queste la dose di lattosio ingerita, l’attività residua della lattasi intestinale, la co-ingestione di cibo con il lattosio, la capacità del microbiota intestinale di fermentare lattosio, e la sensibilità individuale ai prodotti di fermentazione del lattosio.

Molte persone attribuiscono erroneamente i sintomi di diversi disturbi intestinali all’intolleranza al lattosio, senza eseguire un test specifico. Questo equivoco diventa intergenerazionale quando i genitori con intolleranza al lattosio auto-diagnosticata mettono i loro bambini a dieta senza lattosio (anche in assenza di sintomi) nella convinzione che i bambini svilupperanno sintomi se viene loro dato lattosio. Tra le persone con diagnosi certa di intolleranza al lattosio, diversi fattori tra cui l’attività residua della lattasi, la velocità di svuotamento gastrico, la formazione di metaboliti batterici fecali, la capacità di assorbimento attraverso la barriera epiteliale e il tempo di transito intestinale possono modificare anche notevolmente la suscettibilità allo sviluppo di sintomi di intolleranza dopo l’ingestione di alimenti e di bevande contenenti lattosio. 

Gli individui con malassorbimento di lattosio possono tollerare grandi quantità di lattosio se ingerito con i pasti e distribuito durante l’arco di tutta la giornata. Alcuni dati suggeriscono che l’ingestione frequente di lattosio aumenta la quantità di lattosio tollerabile sia dagli adulti sia dagli adolescenti. In ogni caso è importante tenere presente che non trattandosi di una allergia ma di una intolleranza, nei casi realmente diagnosticati si è di fronte a una condizione nella quale i sintomi sono dose-dipendenti e pertanto piccole quantità (come quelle che sono rappresentate dagli eccipienti di compresse e farmaci) non possono mai dare origine alla sintomatologia, mentre invece accade spesso che i pazienti consapevoli di una loro intolleranza sospendono autonomamente una terapia o rifiutano l’assunzione di un determinato farmaco a loro prescritto. Se si considera che la quantità di lattosio utilizzata nel breath test per fare diagnosi di intolleranza è di 25g mentre la quantità di lattosio presente in un bicchiere di latte o in un vasetto di yogurt o in 100g di ricotta non supera i 5g è facile comprendere come spesso i sintomi che compaiono durante l’esecuzione del test, difficilmente si manifestano con l’assunzione abituale dei cibi che contengono il lattosio. Pertanto, molto spesso un paziente con diagnosi di intolleranza al lattosio potrebbe tranquillamente consumare con moderazione alimenti utili alla salute contenenti lattosio dei quali invece si priva sulla base dei risultati del test. Va sottolineato che l’assunzione del lattosio in un soggetto intollerante non causa nessuna patologia o danno al di fuori dei sintomi che la carenza di lattasi è in grado di generare. 

L’uso di latte delattosato e/o di prodotti lattiero caseari a basso tenore di lattosio permette l’assunzione di tutti quei  macro- e micronutrienti in essi contenuti senza incorrere nei disturbi gastrointestinali conseguenti la carenza di lattasi.      

In conclusione, la condizione di intolleranza al lattosio consiste nella presenza di un malassorbimento sintomatico. Spesso viene diagnosticata (o peggio autodiagnosticata) con troppa facilità senza che siano state valutate con attenzione le varie diagnosi differenziali. La carenza dell’enzima non deve automaticamente indurre a eliminare dall’alimentazione latte e derivati in quanto questi alimenti apportano nutrienti molto importanti alla nostra salute. Nei soggetti con diagnosi certa è fondamentale individuare la quantità necessaria a stimolare i sintomi e provare a garantire una alimentazione completa rimanendo al di sotto di tale soglia di lattosio. È importante ricordare che i formaggi stagionati e lo yogurt non contengono lattosio in quantità sufficienti a determinare la comparsa della sintomatologia del paziente e che esistono latti delattosati e anche prodotti a base di lattasi che possono essere utilizzati per non rinunciare al latte e ai formaggi freschi.

“Il piano Transizione 5.0, presentato ieri dal Ministro Adolfo Urso è una ottima notizia ed una grande opportunità per le imprese e per il comparto dell’industria che potranno veder riconosciuto un credito d’imposta nell’ambito di progetti di innovazione rivolti ad una riduzione dei consumi energetici, finalizzati a centrare gli obiettivi di decarbonizzazione e a rendere le nostre imprese più sostenibili”. È quanto dichiara il Presidente di Federalimentare, Paolo Mascarino. 

“Con questo nuovo strumento, da noi fortemente auspicato sin dall’avvio dei lavori del Tavolo Mimit-Masaf per le politiche industriali del settore agroalimentare, le imprese avranno la possibilità di avviare un percorso verso un modello energetico sempre più efficiente, sostenibile, con minore impatto ambientale e basato su fonti rinnovabili, rendendo così le aziende più autonome dalle fluttuazioni dei costi dell’energia. L’impegno economico fra fondi europei e nazionali è davvero significativo (12.7 miliardi di euro per il biennio 2024-2025; 6,3 miliardi di euro, provenienti dal programma RePower EU e 6,4 miliardi, previsti dalla legge di bilancio) e di questo dobbiamo ringraziare il Governo e il ministro Urso per aver mostrato grande attenzione e sensibilità verso un settore primario e strategico del Paese”, – prosegue Mascarino.  

“Rendere maggiormente competitiva l’industria grazie alla possibilità di investire in impianti energetici più sostenibili e di poter produrre energia rinnovabile – aggiunge Mascarino – è una delle grandi sfide che come Italia abbiamo l’obbligo di conseguire e certamente il combinato disposto delle due iniziative, siamo certi, abbatterà i costi industriali e migliorerà ulteriormente l’impatto ambientale e la produttività rendendo le imprese del settore alimentare ancora più competitive sui mercati internazionali”, conclude il Presidente di Federalimentare.

CONOSCERE GLI ALIMENTI PER UN CORRETTO ABBINAMENTO A TAVOLA

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Chi vuole essere attento alla propria alimentazione e cerca alimenti salutari e genuini per poter seguire un regime alimentare sano e “preventivo” non si deve mai dimenticare che abbinare in modo corretto gli alimenti rappresenta una condizione importante per non rischiare di vanificare le proprie scelte. Gli abbinamenti alimentari possono condizionare gli effetti sull’assorbimento e sul metabolismo dei nutrienti sia in senso positivo che in senso negativo.

Iniziamo sfatando uno dei miti più radicati nelle credenze popolari, ovvero quello che porta a credere che non si possano associare carboidrati e proteine. Per smentire questo mito basterebbe pensare che gli alimenti che mangiamo più frequentemente e che rappresentano la base della dieta mediterranea, mi riferisco ai cereali, sono naturalmente composti da zuccheri e proteine insieme. Inoltre, nessuno ha mai dimostrato che fare una dieta dissociata, separando i carboidrati dalle proteine possa avere alcun benefico per la salute. Nella pasta il 12-15% dei nutrienti è rappresentato dalle proteine e quindi anche la pasta mangiata da sola non può essere considerata “carboidrati senza proteine”. 

Per rimanere sui cereali possiamo affermare che uno degli abbinamenti più classici e salutari è quello rappresentato dall’unione tra pasta e fagioli oppure tra riso e piselli. Infatti, le proteine vegetali sono in genere carenti di alcuni aminoacidi essenziali, ma abbinando pasta e legumi si mescolano proteine carenti di un aminoacido essenziale come la lisina (scarso nella pasta ma abbondante nei legumi) con altre (quelle dei legumi) che lo contengono ma sono carenti di metionina a sua volta abbondante nelle proteine della pasta.

Un altro esempio positivo riguarda l’abbinamento dell’ananas o della papaia con le carni, in quanto la presenza della bromelina (enzima proteolitico) in quel tipo di frutta può favorire la digestione delle proteine. Sempre in ambito di combinazione virtuosa troviamo quella del limone, dell’arancia o del kiwi con la carne perché la presenza abbondante di vitamina C in questi frutti trasforma il ferro della carne dalla forma ferrica a quella ferrosa, più biodisponibile e quindi aiuta a migliorare l’utilizzo di questo importante minerale necessario per prevenire e curare varie forme di anemia.

Gli abbinamenti positivi non si fermano qui. Cosa c’è di più naturale di condire un pomodoro con l’olio extravergine di oliva? Il pomodoro contiene dei carotenoidi e in particolare il licopene con eccezionali proprietà antiossidanti. L’olio, da parte sua è il miglior grasso da condimento perché ha una composizione in acidi grassi che aiuta a ridurre il colesterolo cattivo e ad aumentare quello buono oltre a contenere un altro antiossidante straordinario che è la vitamina E. Messi insieme, olio e pomodoro potenziano il loro effetto; infatti, il licopene è liposolubile e quindi il suo assorbimento aumenta notevolmente in presenza di grassi come l’olio. In modo analogo, il pesce, soprattutto quello azzurro essendo ricco in omega 3, grassi molto utili e salutari, può essere un alimento che facilita l’assorbimento di alcune vitamine liposolubili come la A, la D, la E, e la K e di conseguenza le migliori associazioni potrebbero essere quelle che lo vedono abbinato con pomodoro, carote, rosso d’uovo e formaggi.

Ricordiamo anche che non c’è nessun motivo per non associare proteine vegetali con proteine animali ma anzi, per le loro differenti composizioni in aminoacidi, il nostro organismo necessita di entrambe in una proporzione equivalente, e quindi possiamo tranquillamente mangiare un panino con il formaggio oppure, una bistecca con i piselli senza alcun timore.

Ci sono invece alcuni abbinamenti che sono controproducenti. Ci sono infatti alcuni alimenti come i legumi (in particolare i fagioli ma anche la soia) che contengono molti fitati, sostanze che si legano ad alcuni minerali come, per esempio, il calcio e il ferro impedendone il loro assorbimento. Quindi attenzione all’abbinamento dei legumi con i formaggi o latticini soprattutto per chi soffre di osteoporosi o anemia perché è in grado di ridurre l’assorbimento di questi nutrienti. Quindi chi cerca i benefici del calcio mangiando formaggi, o del ferro, consumando la carne dovrebbe avere l’accortezza di non mangiare questi alimenti insieme ai legumi. 

Un discorso analogo riguarda alcune verdure come spinaci, bietola, pomodoro e sedano (oltre che di nuovo i legumi). Questi ortaggi contengono molti ossalati  che in modo simile ai fitati si legano con facilità a sali minerali come calcio, zinco e selenio interferendo in modo consistente nella loro biodisponibilità e quindi nella possibilità di utilizzo da parte dell’organismo.

Esistono, inoltre, alcune condizioni patologiche dove fare attenzione agli abbinamenti diventa molto importante per ridurre l’impatto negativo dell’alimentazione sui sintomi. Per esempio, per chi soffre di sindrome dell’intestino irritabile gli abbinamenti da evitare sono la birra con la pizza (perché si sommano gli effetti di una probabile difficoltà alla digestione degli amidi con il gas della birra) oppure le patate con i legumi. Sia le patate che i legumi contengono amidi e zuccheri difficilmente digeribili oltre a sostanze come le lectine e agglutinine che rendono difficoltoso l’assorbimento delle proteine. Infine, la presenza di inibitori delle proteasi nei legumi può ostacolare il lavoro degli enzimi digestivi e quindi consumarli insieme ad alimenti ricchi di proteine potrebbe facilmente creare problemi a chi soffre di sindrome dell’intestino irritabile.  

Chi soffre di emicrania dovrebbe evitare di abbinare vino e formaggio perché entrambi possono scatenare una crisi di cefalea, mentre per chi soffre di gonfiore addominale questo abbinamento può favorire la produzione di gas intestinale soprattutto se questi alimenti vengono consumati in un pasto ricco di brassicacee (cavoli, broccoli e cavolfiore). 

Chi è affetto da malattia da reflusso gastroesofageo dovrebbe rinunciare a combinare cioccolato, menta e liquirizia per ridurre il rischio dei classici disturbi di acidità e bruciore. Anche mescolare bevande gassate e agrumi può dare origine ai sintomi.

Anche il sonno può essere influenzato da certi abbinamenti alimentari, alcuni in positivo e altri in negativo. Per esempio, combinare alimenti come vino, formaggio e cioccolato può essere controproducente per chi soffre di insonnia perché contengono tiramina, aminoacido precursore dell’adrenalina che ostacola le varie fasi del sonno.

Al contrario, il latte nell’intestino di alcuni individui può dare origine alla comparsa delle casomorfine, sostanze che possono conciliare il sonno soprattutto se abbinate agli zuccheri o ad alimenti che contengono triptofano (precursore della serotonina) come le uova, le nocciole, le arachidi, i legumi o il pesce, o ad altri che contengono melatonina come funghi, semi di girasole e avena.

E alla fine arriva la frutta. Ma è vero che mangiata a fine pasto fa male alla salute? Sebbene non ci sia nessun fondamento scientifico per sconsigliare la frutta a fine pasto ci sono due situazioni nelle quali è meglio evitarla. 1) in una dieta dimagrante, perché togliendola dopo il pasto costa meno fatica avendo meno fame, e spostandola a metà mattina e a metà pomeriggio si aggiungono due spuntini quando se ne sente di più il bisogno senza aumentare l’apporto calorico. 2) in corso di “post prandial distress” condizione patologica nella quale è presente un rallentato svuotamento gastrico che si traduce in difficoltà a digerire e pesantezza di stomaco dopo mangiato.

CORRETTE PORZIONI E FREQUENZE DI CONSUMO

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Quando si parla di alimentazione ci si ferma abitualmente al concetto legato al tutto o niente. Ovvero un alimento “fa bene” o “fa male” in base a stereotipi generici o appartenenti all’immaginario collettivo e raramente ci si addentra nella complessità dell’argomento. Non esistono in realtà alimenti “buoni” o “cattivi” ma esiste il concetto di proporzionalità come suggerito egregiamente dalla grafica della piramide della dieta mediterranea (figura 1) dove appare chiaro che non esiste una discriminazione in termini di scelte di alimenti ma quello che deve guidare le logiche di una sana alimentazione sono ispirate alla proporzionalità e alla frequenza di consumo di alcuni cibi rispetto ad altri.

Sia i LARN (livelli di assunzione di riferimento) (1) che le Linee Guida italiane per una sana alimentazione (2) hanno chiarito dettagliatamente come le porzioni e le frequenze di consumo rappresentino l’obiettivo principale di insegnamento in una corretta campagna di educazione alimentare. I LARN definiscono porzione standard la quantità di alimento che si assume come unità di riferimento riconosciuta e identificabile sia dagli operatori del settore nutrizionale e sia dalla popolazione. La porzione standard deve essere coerente con la tradizione alimentare e di dimensioni ragionevoli, in accordo con le aspettative del consumatore. È una unità di misura di riferimento della quantità di alimento consumata e può essere espressa in unità naturali o commerciali effettivamente visualizzabili (ad es. frutto medio, fetta di pane, fetta di prosciutto, lattina, scatoletta ecc.) oppure in unità di misura casalinghe di uso comune (ad es. cucchiaio, mestolo, bicchiere, tazza ecc.). La porzione rimane comunque un concetto approssimativo e puramente indicativo sebbene molto importante. Una singola porzione può variare in funzione dell’esigenza calorica dell’individuo, della sua età, del suo sesso, della sua attività fisica, della soddisfazione personale, della sua sfera psicologica e della sua capacità organizzativa giornaliera. Pertanto, appare sbagliato considerare la porzione come un dogma insormontabile. Piuttosto, diventa opportuno considerare che un regime alimentare venga suggerito partendo da questo concetto di porzione per poi adattarsi alle singole esigenze individuali in modo da personalizzare il modello alimentare. Analogamente a questo concetto si esprime quello delle frequenze di consumo. Questo significa che una volta definita la porzione, diventa importante stabilire quante volte questa porzione può essere consumata in un giorno, o in una settimana, dal consumatore. A questo proposito, le linee guida per una sana alimentazione (2) hanno indicato le frequenze di consumo in base all’ammontare di differenti quote di calorie totali giornaliere assunte dal consumatore, cercando in questo modo di modulare e personalizzare l’assunzione degli alimenti in modo più congeniale alle reali necessità, sebbene, come abbiamo detto, l’apporto complessivo giornaliero rappresenta soltanto uno dei parametri da considerare in un’ottica di personalizzazione.

Ecco, quindi, che la scelta degli alimenti da utilizzare in una corretta dieta alimentare non deve tenere conto soltanto della composizione in macronutrienti (carboidrati, lipidi, proteine, fibre e acqua) o molecole bioattive (polifenoli, antiossidanti, fitosteroli, fitoestrogeni) o dell’apporto calorico perché, alla luce delle attuali conoscenze, sarebbe fortemente riduttivo se non andiamo oltre prendendo anche in considerazione il concetto di “quanto” e “quando” assumere gli stessi alimenti. 

Sappiamo che la dieta mediterranea non esalta un singolo alimento rispetto ad un altro, ma che al contrario valuta nel loro insieme la combinazione di vari alimenti e li associa ad un regolare svolgimento dell’attività fisica. Gli alimenti base della dieta mediterranea come sappiamo sono: frutta e verdura (apportano vitamine, sali minerali, polifenoli, antociani, acqua, fibra), cereali (carboidrati complessi e proteine), pesce (proteine di elevato valore biologico, omega 3, sali minerali), legumi (proteine di medio valore biologico, fibra, carboidrati complessi), olio (acidi grassi MUFA e PUFA, vitamine, polifenoli, molecole bioattive). Diciamo che questi sono gli alimenti base proprio perché sono quelli che devono essere consumati in maggior quantità (porzioni) e con maggior frequenza. Il concetto di porzione e frequenza permette peraltro di non escludere dalla dieta mediterranea anche gli altri alimenti, i cui consumi devono essere definiti anch’essi da porzioni e frequenze e mai esclusi. Ci riferiamo per esempio alle carni, ai prodotti dolciari e ai condimenti. Questo è molto importante perché l’aspetto edonistico, sociale, psicologico e conviviale del cibo rappresenta una dei cardini moderni della dieta mediterranea. I nutrienti apportati da questi altri alimenti sono altrettanto importanti per la salute (zuccheri, grassi, sali minerali ecc.) e il loro apporto in una corretta alimentazione è altrettanto valido ed opportuno se si rispettano anche per loro i concetti di porzione e frequenza. La proibizione immotivata non è salutare ma soprattutto non è necessaria. Anche la restrizione eccessiva può essere controproducente. Un recente report della commissione EAT Lancet suggerisce un progetto di dieta universale prendendo come riferimento la dieta mediterranea cercando di darle una veste di universalità per adattarla a tutti i paesi del mondo e genericamente a tutti gli individui andando in direzione opposta ai concetti di personalizzazione appena espressi.

Il problema di questo report sulla dieta universale è che dopo una banale e scontata dichiarazione di intenti e propositi, coraggiosamente suggerisce in modo particolareggiato le grammature dei singoli alimenti da ingerire da parte di ogni individuo. E qui non può che alzarsi una montagna di perplessità. Per fare qualche esempio. Si consiglia un consumo di 14 g al giorno di prodotti derivati dalla carne. Questo corrisponde a una piccola fettina di carne o una mezza bistecca a settimana. Il pesce, circa 200 g a settimana (una porzione), il pollo idem (una porzione a settimana) e le uova 2 a settimana (piccole però). Da sottolineare che non si tiene conto (e non sarebbe possibile farlo) delle enormi diversità tra giovani e anziani, sportivi e non, ecc.

Questa estremizzazione va probabilmente molto aldilà delle raccomandazioni della dieta mediterranea (che consiglia 1 o 2 porzioni, e non mezza, di carne rossa a settimana, più di due porzioni di pesce e di pollo e fino a 4 uova). Non ci sono evidenze che ridurre drasticamente questi alimenti sotto queste quantità porti dei vantaggi in termini di salute. Riducendo così tanto i prodotti di origine animale la commissione EAT si vede peraltro costretta, per garantire il fabbisogno proteico, ad aumentare in modo alquanto bizzarro le porzioni di cereali (232 g, ovvero 3 piatti di pasta al giorno) o di legumi (3 porzioni di 200 g a settimana, difficilmente tollerabili da chi soffre di colon irritabile o di gonfiore addominale) e di noci/mandorle (50 g al giorno per ben 300 calorie!) suggerendo un apporto calorico giornaliero di ben 2500 calorie! Diventa complicato combattere la piaga dell’obesità e promuovere la cultura dell’educazione alla riduzione dell’apporto calorico globale. Basterebbe essere meno ideologici e un po’ più pratici, e pensare che per avere 5 gr di proteine le noci apportano 300 calorie, mentre una porzione da 150 gr di merluzzo apporta ben 25 g di proteine con solo 100 calorie.  

In conclusione, possiamo affermare che una sana alimentazione si ispira alla varietà e alla diversità (2) e che la gamma di alimenti che offre la dieta mediterranea, il miglior modello scientificamente validato, consente di non escludere alcun alimento. Quello che invece deve essere tenuto in debito conto è il concetto di porzione e di frequenza di consumo, un criterio che deve essere basato, però, sull’idea di personalizzazione e non determinato da schemi ideologici. 

  Figura 1.           PIRAMIDE DELLA DIETA MEDITERRANEA

RIFERIMENTI

  1. https://sinu.it/wp-content/uploads/2019/07/20141111_LARN_Porzioni.pdf
  2. https://www.crea.gov.it/documents/59764/0/LINEE-GUIDA+DEFINITIVO.pdf/28670db4-154c-0ecc-d187-1ee9db3b1c65?t=1576850671654
MANIPOLAZIONE DEGLI ALIMENTI E METODI DI COTTURA

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Quando analizziamo i benefici di una sana alimentazione e degli alimenti che la compongono prendiamo sempre in considerazione la composizione naturale degli stessi e gli effetti, benefici o nocivi che siano, che questi esercitano sullo stato di salute. Nella pratica quotidiana però, sia nella filiera produttiva che nella preparazione domestica dei piatti in cucina, gli alimenti possono subire modifiche anche consistenti del loro stato presente in natura. La trasformazione industriale degli alimenti deve soddisfare imprescindibili requisiti di sicurezza, conservazione, praticità, trasporto, distribuzione e palatabilità del prodotto affinchè il consumatore finale possa beneficiarne. Si tende sempre ad associare la manipolazione industriale degli alimenti a qualcosa di dannoso e negativo che può comportare esclusivamente perdita dei principi nutritivi e rischi per la salute. Ma è davvero così? Il livello di manipolazione di un alimento può essere valutato sulla base di classificazioni che misurano il grado di intervento nei processi di produzione del prodotto finale. La più nota è la classificazione NOVA (1).  Questa classificazione prevede quattro livelli di processazione:

  1. Cibi non trasformati o minimamente lavorati. Vi rientrano acqua, parti commestibili di piante (semi, frutti, foglie, steli, radici), funghi e alghe. Ma anche i prodotti di origine animale più semplici, come uova, latte, carni non lavorate.
  2. Ingredienti per la cucina domestica. Sono gli alimenti basilari per la preparazione e il condimento dei cibi. Oli e grassi, aceto e sale, zucchero, erbe aromatiche e spezie, etc. difficilmente si usano in assenza di alimenti del gruppo 1.
  3. Alimenti trasformati (processed food). Fanno parte di questo gruppo alimenti ottenuti con lavorazioni semplici. Pane, pasta, formaggi, carni e pesci nelle lavorazioni più semplici, conserve vegetali, verdure in lattina. Si trovano preparazioni con massimo 2 o 3 ingredienti.
  4. Alimenti ultraprocessati. Si tratta di preparati realizzati con più di 4 elementi e possono includere anche composti presenti negli alimenti minimamente trasformati come sale, grassi, oli, antiossidanti, conservanti, coloranti, dolcificanti e altri additivi per esaltare il sapore. Lo scopo di questi prodotti è quello di fornire piatti o bevande pronti per il consumo o semplici da riscaldare. Abitualmente sono oggetto di campagne di marketing e pubblicità. Esempi sono gli snack, barrette alimentari, piatti pronti, pizza o dolci precucinati, gelati preconfezionati, zuppe istantanee.

Sebbene esistano studi che sembrano mettere in correlazione gli alimenti del gruppo 4 (ultraprocessati) con una maggior rischio di patologie, siccome i processi di produzione di un alimento ultraprocessato sono così vari risulta impossibile e poco scientifico attribuire un’etichetta di non salubrità a tutti questi prodotti appartenenti a questa categoria al momento attuale. L’aggiunta di un additivo o la preparazione a monte di un alimento non necessariamente può essere collegata ad un rischio per la salute se non si tiene conto della qualità dell’alimento di partenza e del reale processo produttivo preso singolarmente. Per esempio, un trattamento ad alta temperatura può ridurre la presenza di qualche nutriente ma non necessariamente rende il prodotto pericoloso per la salute. Lo stesso si può dire per l’aggiunta di un conservante o per l’abbinamento di più alimenti nella preparazione di un piatto pronto. Vale poi sempre il discorso delle quantità, perché esistono alimenti che pur contenendo “naturalmente” sostanze pericolose il loro consumo abitualmente parsimonioso li rende estremamente sicuri. Un esempio è il basilico che, pur rientrando secondo la classificazione NOVA in classe 1 (naturale e pertanto considerato “sicuro”) contiene il metil eugenolo, sostanza possibilmente cancerogena secondo la classificazione IARC.

Anche i metodi di cottura influenzano i profili nutrizionali degli alimenti. Cucinare il cibo può presentare vantaggi (favorisce la sicurezza microbiologica, migliora la biodisponibilità di alcuni nutrienti come il licopene del pomodoro e la vitamina B dell’uovo, consente la digeribilità di amidi e proteine ecc.) o svantaggi (porta alla perdita di nutrienti e di vitamine termolabili e alla formazione di prodotti tossici in caso di alte temperature).

Quando prendiamo in esame un alimento valutiamo i nutrienti che abitualmente sono presenti al momento della raccolta in condizioni di piena stagionalità, della pesca o della macellazione, ma la cottura del prodotto modifica sostanzialmente la sua composizione o la disponibilità delle sostanze che contiene. Prendiamo per esempio la frittura. Anche quando rispetta i migliori criteri in termini di olio, durata, forma della padella e tempi di cottura, a causa delle alte temperature che si sviluppano in presenza dei grassi (presenti nell’olio o nel burro utilizzati o nell’alimento stesso) si verifica una reazione di perossidazione, con conseguente formazione di radicali liberi. Ecco che un pesce, ricco di omega 3 dagli effetti positivi, può trasformarsi in fonte di radicali liberi con la loro cattiva abitudine di “invecchiare” le cellule. Inoltre, se durante la frittura si raggiunge o supera il punto di fumo dell’olio o del burro si formano alcune sostanze come la acroleina, molto tossica per il fegato oltre che cancerogena. È dunque importante conoscere questa temperatura che è specifica per ogni tipo di olio o di burro, e come si può immaginare è più sicura quanto più alta essa sia perché più difficile da raggiungere. La frittura peraltro penalizza quasi tutte le verdure riducendo in modo rilevante il loro potere antiossidante, tranne cicoria, cavoletti di bruxelles, patate e carciofi (2).

Anche la cottura alla griglia della carne, a causa delle alte temperature, può favorire la denaturazione delle proteine e degli aminoacidi (rendendoli inutilizzabili), la formazione degli idrocarburi policiclici e la perossidazione dei grassi.

Gli zuccheri, con le temperature elevate, possono dare origine a sostanze  potenzialmente tossiche (come si verifica nella reazione di Maillard che dà origine alla crosta del pane e al suo profumo). Inoltre, alcune vitamine come la C e l’acido folico sono molto termolabili e con le cotture prolungate ad alta temperatura tendono a scomparire. Anche la maggior parte dei polifenoli sparisce con la cottura.

La cottura, d’altro canto, è indispensabile alla salute fondamentalmente perchè abbatte drasticamente il rischio di contaminazione degli alimenti da parte di batteri e funghi (basti pensare all’importanza della pastorizzazione, che consente il consumo del latte senza rischi di tubercolosi, brucellosi e altre infezioni).

Inoltre, la cottura permette la digestione da parte dei succhi gastrici di alimenti come la carne, il pesce, la pasta o il pane altrimenti inutilizzabili o potenzialmente pericolosi. Alcuni nutrienti, contrariamente a quanto si tenderebbe a credere, sono più facilmente utilizzabili dall’organismo dopo la cottura. Un esempio classico è rappresentato dalla vitamina B12 delle uova, che vede la propria biodisponibilità aumentare con la cottura grazie all’azione di quest’ultima nel favorire la scissione della vitamina dalla avidina, sostanza alla quale è legata.

Anche la biodisponibilità dei carotenoidi delle carote aumenta con la cottura perché questi si liberano della matrice che li lega. I carciofi grazie alle temperature della cottura aumentano di biodisponibilità di un carotenoide particolare, la luteina. 

La bollitura è il metodo che ne offre la maggiore disponibilità (quasi 10 volte di più) ma anche la frittura rende i carotenoidi dei carciofi più fruibili (4 volte di più). Per i broccoli invece la cottura non offre alcun vantaggio, anzi determina una perdita importante della vitamina C presente in abbondanza nel prodotto fresco.

Le antocianine e i flavonoidi in genere si perdono con la cottura. Il riso rosso può arrivare a perderne l’80% con la cottura a pressione.

Come possiamo vedere non esiste un metodo ottimale di cottura. La cottura degli alimenti in termini generali è molto utile per la salubrità e la digeribilità dell’alimento e dovrebbe riguardare prevalentemente i prodotti di origine animale. In questo caso cerchiamo di privilegiare le cotture a bassa temperatura e di breve durata. I prodotti vegetali invece tendono a dare il meglio per la nostra salute se consumati crudi anche se abbiamo visto non essere una regola.

Bibliografia

  1. Monteiro CA, Cannon G, Levy RB et al. NOVA. The star shines bright.
    Food classification. Public health] World Nutrition January-March 2016, 7, 1-3, 28-38 World Nutrition Volume 7, Number 1-3, January-March 2016 
  2. Pellegrini N, Miglio C, Del Rio D, Salvatore S, Serafini M, Brighenti F. Effect of domestic cooking methods on the total antioxidant capacity of vegetables. Int J Food Sci Nutr. 2009;60 Suppl 2:12-22. doi: 10.1080/09637480802175212. 
BUONE PRATICHE PER EVITARE GLI SPRECHI ALIMENTARI 

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Cosa intendiamo quando parliamo di sprechi alimentari? Per il Ministero della Salute, si definisce spreco alimentare “l’insieme dei prodotti scartati dalla catena agroalimentare, che per ragioni economiche, estetiche o per la prossimità della scadenza di consumo, seppure ancora commestibili e quindi potenzialmente destinati al consumo umano, sono destinati ad essere eliminati o smaltiti” Il Waste Watcher, International Observatory on Food & Sustainability nel suo action program (WRAP), includendo anche porzioni di cibo non commestibili (come risulta anche nella direttiva 2018/851 dell’Ue), distingue il food waste in:

  • evitabile (cibo e bevande finiti in spazzatura ma ancora edibili, come pezzi di pane, mele, carne, ecc.)
  • possibilmente evitabile (cibo e bevande che alcune persone consumano, per esempio le croste del pane, e altre persone no; ma anche il cibo che può essere consumato se cucinato, per esempio la buccia di patate)
  • inevitabile (ossi di carne, bucce d’uovo, d’ananas ecc.).

I numeri dello spreco in Italia sono impressionanti. Secondo una indagine pubblicata sul Corriere della Sera nel 2023 ogni anno in Italia vengono sprecati 8.65 milioni di tonnellate di cibo (1) con il 73% che si verifica in casa pari ad una perdita di 385 euro per ogni cittadino. 

Oggi circa un terzo del cibo prodotto in tutto il mondo viene sprecato. Si tratta di oltre 1,6 miliardi di tonnellate, a fronte delle 5,3 disponibili. Si stima che, salvando appena un quarto del cibo che diventa rifiuto alimentare, si potrebbe riuscire a nutrire a sufficienza coloro che soffrono la fame: 828 milioni di persone (+5,6% rispetto al 2020 e +22,1% rispetto al 2019).

Vediamo quali sono le principali cause dello spreco alimentare.

  1. Insufficiente pianificazione della spesa alimentare
  2. Attività promozionali commerciali (per esempio paga uno e prendi due)
  3. Confusione tra data di scadenza e termine minimo di conservazione (da consumarsi preferibilmente entro…)
  4. Scarsa dimestichezza nella preparazione dei cibi
  5. Scarsa praticità delle confezioni (difficilmente svuotabili o troppo grandi)
  6. Giudizio sbagliato dell’aspetto estetico dell’alimento
  7. Porzioni standard e poco adatte a tutti i consumatori
  8. Scarsa capacità di prevedere il numero dei consumatori (soprattutto nella ristorazione collettiva) in particolare per prodotti stagionali
  9. Difetti di packaging
  10. Inadeguata conservazione (soprattutto a livello domestico) o trasporto (mancato rispetto della catena del freddo)
  11. Mancata consapevolezza del rischio e dei costi dello spreco alimentare e del valore del cibo
  12. Vita frenetica e scarsa programmazione alimentare domestica

Come si può osservare oltre ad alcune cause legate al packaging o a previsioni di consumo su larga scala, la maggior parte delle cause dello spreco alimentare avviene in ambito domestico e appare evidente come una corretta campagna di educazione e consapevolezza potrebbe avere un impatto enorme sulla riduzione degli sprechi alimentari. A livello collettivo il Ministero della salute nel 2016, in condivisione con le Regioni e province autonome, ha elaborato delle linee guida per limitare gli sprechi nelle mense scolastiche e aziendali (2). Tutti gli attori devono svolgere il loro ruolo nel tentativo di ridurre lo spreco alimentare, dai produttori a chi processa gli alimenti, ai consumatori e alle autorità regolatorie e di sorveglianza.  Il Ministero della Salute ha stilato un elenco di consigli volti a ridurre lo spreco (3) che partono dalla pianificazione dei pasti prima di fare la spesa così da andare al supermercato con un programma studiato, in modo da limitare le improvvisazioni che possono più facilmente condizionare gli acquisti in base all’appetito, alle offerte, alle presentazioni pubblicitarie accattivanti e alle modalità di presentazione sugli scaffali. È fondamentale, al momento dell’acquisto, leggere le etichette per valutare la previsione dei consumi in funzione delle scadenze dei prodotti. Arrivati a casa, una regola da seguire con molto rigore è quella di disporre correttamente in frigorifero o nella dispensa gli alimenti appena acquistati seguendo una certa razionalità. Questo significa non solo collocare gli alimenti nei ripiani e nei comparti dedicati per garantire una corretta conservazione in base alle differenti temperature, ma cercando di mettere davanti, in prima vista, gli alimenti più vicini alla data di scadenza e gli altri, appena acquistati, dietro. Il consumatore deve prestare molta attenzione alla differenza tra “data di scadenza” che indica il limite oltre il quale il prodotto non deve essere consumato, e “termine minimo di conservazione” che indica che il prodotto, oltre la data riportata, può subire modifiche di alcune caratteristiche organolettiche come il sapore e l’odore ma può essere consumato senza rischi per la salute. Deve inoltre adottare l’accortezza, nel caso di utilizzo di confezioni non richiudibili, di riporre gli alimenti avanzati in contenitori ermetici per mantenere la freschezza e le proprietà organolettiche più a lungo possibile, garantendo inoltre un certo isolamento così da evitare di trasferire o ricevere odori da altri alimenti conservati in prossimità. La frutta e la verdura vanno tenute in bella vista e quando cominciano a mostrare segni di “invecchiamento” possono essere usate per preparare frullati, minestroni, zuppe o torte (dolci o salate). Infine, è importante che il consumatore usi tutta la sua fantasia per preparare ricette che possano sfruttare al massimo gli alimenti conservati prima che perdano la loro fragranza e soprattutto tenendo conto delle porzioni che intende preparare analizzando se tra i commensali ci siano bambini, anziani o persone inappetenti o a dieta per qualunque motivo (di salute o per dimagrire). A volte anche solo osservare i rifiuti prodotti in casa può sensibilizzare il consumatore e renderlo più consapevole dei suoi sprechi alimentari.

Referenze

  1.   Sprechi alimentari, a ogni italiano costano 385 euro all’anno
  2.   Linee di indirizzo rivolte agli enti gestori di mense scolastiche, aziendali, ospedaliere,  sociali  e  di comunità, al fine di prevenire e ridurre  lo  spreco  connesso  alla somministrazione  degli  alimenti
  3.   Regole utili

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