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G7 Agricoltura, Mascarino (Pres. Federalimentare): “Sfide globali per accesso a cibo sicuro e di qualità”

“Siamo orgogliosi di rappresentare al G7 Agricoltura e Pesca l’industria alimentare italiana portando al centro del dibattito una sfida comune che ci vede impegnati nel garantire sicurezza alimentare, producendo cibo sicuro e di qualità”. Lo ha dichiarato il Presidente di Federalimentare, Paolo Mascarino in occasione del G7 Agricoltura e Pesca di Ortigia.

“Siamo conosciuti nel mondo come dei trasformatori di alimenti sicuri, la nostra industria, in termini di fatturato, è la prima manifattura in Italia e, in un contesto internazionale come il G7 è importante trasmettere un messaggio di fiducia e di responsabilità sociale verso i cittadini e i consumatori che ci chiedono di coniugare alla nostra storia e alle nostre tradizioni, l’innovazione, la scienza e la ricerca tecnologica”. 

“In occasione della Giornata Mondiale della Sicurezza Alimentare da un’indagine elaborata dall’Istituto Piepoli – ha continuato Mascarino – emerse con chiarezza come per gli italiani la scienza, la tecnologia e l’innovazione fossero le soluzioni migliori per contrastare i rischi legati alla sicurezza alimentare e in un appuntamento come il G7, questi temi rivestono un carattere di priorità a livello globale”. 

“Una priorità tracciata dagli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU che prevede lo sviluppo sostenibile del Pianeta e che ci sprona a produrre alimenti sostenibili e per tutti. Come industria siamo consapevoli che gli investimenti nella scienza e nella tecnologia sono gli asset strategici sui quali puntare se vogliamo che la domanda crescente di cibo proveniente dai Paesi in via di sviluppo e dal Sud del Mondo venga soddisfatta. Sono in atto cambiamenti epocali che non riguardano più il singolo Paese ma la nostra capacità di essere competitivi e credibili nei mercati globali. Garantire dunque, alle popolazioni l’accesso al cibo ben fatto, sicuro e di qualità – ha aggiunto – è fra le priorità dell’industria alimentare e come tale sappiamo il ruolo che svolgiamo e che dovremo continuare a svolgere al fianco delle Istituzioni in una sfida di sistema che ci vede da sempre impegnati su questi temi”. 

“Per Federalimentare partecipare al G7 portando il proprio contributo di esperienza e di affidabilità è stato motivo di grande responsabilità e per queste ragioni – conclude Mascarino – desidero ringraziare il ministro Schillaci per la sensibilità mostrata sul tema della sicurezza alimentare e il ministro Lollobrigida per averci offerto l’opportunità di portare all’attenzione dei leader del G7 il contributo dell’industria alimentare italiana sulle sfide globali che ci attendono con una visione pragmatica che per noi è il miglior modo per costruire un’agenda di priorità per lo sviluppo del Paese, per le future generazioni e nelle relazioni internazionali”.

“Federalimentare esprime il suo apprezzamento per la nomina di Raffaele Fitto quale Vicepresidente esecutivo della Commissione Europea, con delega alla Coesione e alle Riforme”. Lo dichiara in una nota il Presidente di Federalimentare, Paolo Mascarino.

“Per l’Italia, per il mondo delle imprese e dell’industria aver ottenuto una vice presidenza esecutiva di così grande prestigio è certamente motivo di orgoglio. Nelle prossime sfide che la nuova Commissione dovrà affrontare, infatti, quella della coesione europea sarà fondamentale per costruire un’Europa più vicina ai cittadini, colmando le differenze economiche, sociali e territoriali attuali che ne hanno limitato la produttività. Una coesione – prosegue Mascarino – che non può prescindere dall’innovazione e della competitività che saranno le due leve per raggiungere gli obiettivi della transizione verde e digitale sulle quali l’Italia e l’Europa sono chiamati a dare risposte nell’interesse comune e che, siamo certi, sapranno trovare in Raffaele Fitto un ottimo interlocutore”. 

“Aver ottenuto una Vicepresidenze esecutiva alla Commissione Europea – conclude Mascarino – è una vittoria per l’Italia e per il nostro sistema Paese al quale viene riconosciuta autorevolezza, credibilità e affidabilità”.

INTOLLERANZA AL LATTOSIO: LA VERA DIMENSIONE DEL PROBLEMA

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

L’intolleranza al lattosio viene spesso confusa con l’allergia al latte, ma si tratta di due fenomeni molto diversi tra loro. L’allergia è più frequente in età infantile e la sua frequenza diminuisce con l’età, mentre la maggior parte (~il 70%) della popolazione mondiale non esprime, in età adulta, l’enzima (lattasi) necessario per idrolizzare il lattosio, e quindi digerire questo zucchero nei due monosaccaridi che lo compongono, il glucosio e il galattosio, e questa carenza dà origine all’intolleranza al lattosio.

La lattasi non è un enzima costitutivamente espresso in abbondanza nel piccolo intestino dei mammiferi. Il neonato umano, ad esempio, possiede livelli molto bassi di lattasi. Questo fatto non deve sorprendere: le madri non producono infatti latte a partire dal primo giorno. La sua produzione inizia dal secondo giorno (con circa 50 ml), aumentando gradualmente di 50 ml/die in parallelo con l’aumento dell’espressione di lattasi nell’intestino del neonato (durante i primi 2 giorni il fabbisogno energetico del neonato è coperto dall’autofagia del tessuto embrionale non più necessario).

La maldigestione del lattosio da parte degli adulti, dovuta all’assenza di lattasi è quindi molto frequente, e rappresenta la norma tranne che in Nord Europa o in Nord America, dove il fenotipo mutante della persistenza della lattasi in età adulta è al contrario la situazione più diffusa.

Perché si possa parlare di intolleranza al lattosio, tuttavia, debbono essere presenti sintomi specifici associati al consumo di lattosio, conseguenti alla fermentazione batterica del lattosio non digerito che raggiunge il colon. La carenza di lattasi comporta la “maldigestione” del lattosio, che di conseguenza porta al suo “malassorbimento”. Solo quando il malassorbimento del lattosio dà origine a dei sintomi (dolori addominali, gonfiore, diarrea ecc.) allora siamo in presenza di “intolleranza” al lattosio. Il malassorbimento del lattosio può essere diagnosticato facendo ingerire una dose standard (25 gr) di lattosio a digiuno e misurando poi l’idrogeno espirato (breath test): elevati livelli di idrogeno nel respiro sono causati dalla fermentazione batterica del lattosio non digerito. Altri strumenti di diagnostica includono la misurazione dell’attività della lattasi in un campione di biopsia intestinale o test genetici per il polimorfismo comunemente legato alla non-persistenza della lattasi, ma queste ultime metodiche diagnostiche non hanno un grande valore nella pratica clinica. In ogni caso può essere poco indicativo anche il breath test al lattosio se durante l’esame non vengono valutati i sintomi del paziente ma ci si affida esclusivamente alla comparsa del picco di idrogeno espirato come purtroppo invece accade abitualmente. Questo dato indica un malassorbimento e non necessariamente uno stato di intolleranza. Viceversa, molti pazienti riferiscono comparsa di sintomi durante l’esame in assenza di una evidenza di malassorbimento. Questo a dimostrazione del fatto che la semplice associazione tra ingestione del lattosio e comparsa dei sintomi porta troppo spesso all’erronea autodiagnosi. Infatti, spesso i sintomi sono una conseguenza della presenza di una sindrome dell’intestino irritabile o di una allergia alle proteine del latte o di una avversione psicologica agli alimenti contenenti lattosio piuttosto che di una vera intolleranza al lattosio.

Dimostrare un malassorbimento di lattosio non indica pertanto che l’individuo in questione svilupperà necessariamente i sintomi e quindi una intolleranza.

Molte variabili determinano se una persona che assorbe male il lattosio riporterà sintomi: tra queste la dose di lattosio ingerita, l’attività residua della lattasi intestinale, la co-ingestione di cibo con il lattosio, la capacità del microbiota intestinale di fermentare lattosio, e la sensibilità individuale ai prodotti di fermentazione del lattosio.

Molte persone attribuiscono erroneamente i sintomi di diversi disturbi intestinali all’intolleranza al lattosio, senza eseguire un test specifico. Questo equivoco diventa intergenerazionale quando i genitori con intolleranza al lattosio auto-diagnosticata mettono i loro bambini a dieta senza lattosio (anche in assenza di sintomi) nella convinzione che i bambini svilupperanno sintomi se viene loro dato lattosio. Tra le persone con diagnosi certa di intolleranza al lattosio, diversi fattori tra cui l’attività residua della lattasi, la velocità di svuotamento gastrico, la formazione di metaboliti batterici fecali, la capacità di assorbimento attraverso la barriera epiteliale e il tempo di transito intestinale possono modificare anche notevolmente la suscettibilità allo sviluppo di sintomi di intolleranza dopo l’ingestione di alimenti e di bevande contenenti lattosio. 

Gli individui con malassorbimento di lattosio possono tollerare grandi quantità di lattosio se ingerito con i pasti e distribuito durante l’arco di tutta la giornata. Alcuni dati suggeriscono che l’ingestione frequente di lattosio aumenta la quantità di lattosio tollerabile sia dagli adulti sia dagli adolescenti. In ogni caso è importante tenere presente che non trattandosi di una allergia ma di una intolleranza, nei casi realmente diagnosticati si è di fronte a una condizione nella quale i sintomi sono dose-dipendenti e pertanto piccole quantità (come quelle che sono rappresentate dagli eccipienti di compresse e farmaci) non possono mai dare origine alla sintomatologia, mentre invece accade spesso che i pazienti consapevoli di una loro intolleranza sospendono autonomamente una terapia o rifiutano l’assunzione di un determinato farmaco a loro prescritto. Se si considera che la quantità di lattosio utilizzata nel breath test per fare diagnosi di intolleranza è di 25g mentre la quantità di lattosio presente in un bicchiere di latte o in un vasetto di yogurt o in 100g di ricotta non supera i 5g è facile comprendere come spesso i sintomi che compaiono durante l’esecuzione del test, difficilmente si manifestano con l’assunzione abituale dei cibi che contengono il lattosio. Pertanto, molto spesso un paziente con diagnosi di intolleranza al lattosio potrebbe tranquillamente consumare con moderazione alimenti utili alla salute contenenti lattosio dei quali invece si priva sulla base dei risultati del test. Va sottolineato che l’assunzione del lattosio in un soggetto intollerante non causa nessuna patologia o danno al di fuori dei sintomi che la carenza di lattasi è in grado di generare. 

L’uso di latte delattosato e/o di prodotti lattiero caseari a basso tenore di lattosio permette l’assunzione di tutti quei  macro- e micronutrienti in essi contenuti senza incorrere nei disturbi gastrointestinali conseguenti la carenza di lattasi.      

In conclusione, la condizione di intolleranza al lattosio consiste nella presenza di un malassorbimento sintomatico. Spesso viene diagnosticata (o peggio autodiagnosticata) con troppa facilità senza che siano state valutate con attenzione le varie diagnosi differenziali. La carenza dell’enzima non deve automaticamente indurre a eliminare dall’alimentazione latte e derivati in quanto questi alimenti apportano nutrienti molto importanti alla nostra salute. Nei soggetti con diagnosi certa è fondamentale individuare la quantità necessaria a stimolare i sintomi e provare a garantire una alimentazione completa rimanendo al di sotto di tale soglia di lattosio. È importante ricordare che i formaggi stagionati e lo yogurt non contengono lattosio in quantità sufficienti a determinare la comparsa della sintomatologia del paziente e che esistono latti delattosati e anche prodotti a base di lattasi che possono essere utilizzati per non rinunciare al latte e ai formaggi freschi.

“Il piano Transizione 5.0, presentato ieri dal Ministro Adolfo Urso è una ottima notizia ed una grande opportunità per le imprese e per il comparto dell’industria che potranno veder riconosciuto un credito d’imposta nell’ambito di progetti di innovazione rivolti ad una riduzione dei consumi energetici, finalizzati a centrare gli obiettivi di decarbonizzazione e a rendere le nostre imprese più sostenibili”. È quanto dichiara il Presidente di Federalimentare, Paolo Mascarino. 

“Con questo nuovo strumento, da noi fortemente auspicato sin dall’avvio dei lavori del Tavolo Mimit-Masaf per le politiche industriali del settore agroalimentare, le imprese avranno la possibilità di avviare un percorso verso un modello energetico sempre più efficiente, sostenibile, con minore impatto ambientale e basato su fonti rinnovabili, rendendo così le aziende più autonome dalle fluttuazioni dei costi dell’energia. L’impegno economico fra fondi europei e nazionali è davvero significativo (12.7 miliardi di euro per il biennio 2024-2025; 6,3 miliardi di euro, provenienti dal programma RePower EU e 6,4 miliardi, previsti dalla legge di bilancio) e di questo dobbiamo ringraziare il Governo e il ministro Urso per aver mostrato grande attenzione e sensibilità verso un settore primario e strategico del Paese”, – prosegue Mascarino.  

“Rendere maggiormente competitiva l’industria grazie alla possibilità di investire in impianti energetici più sostenibili e di poter produrre energia rinnovabile – aggiunge Mascarino – è una delle grandi sfide che come Italia abbiamo l’obbligo di conseguire e certamente il combinato disposto delle due iniziative, siamo certi, abbatterà i costi industriali e migliorerà ulteriormente l’impatto ambientale e la produttività rendendo le imprese del settore alimentare ancora più competitive sui mercati internazionali”, conclude il Presidente di Federalimentare.

CONOSCERE GLI ALIMENTI PER UN CORRETTO ABBINAMENTO A TAVOLA

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Chi vuole essere attento alla propria alimentazione e cerca alimenti salutari e genuini per poter seguire un regime alimentare sano e “preventivo” non si deve mai dimenticare che abbinare in modo corretto gli alimenti rappresenta una condizione importante per non rischiare di vanificare le proprie scelte. Gli abbinamenti alimentari possono condizionare gli effetti sull’assorbimento e sul metabolismo dei nutrienti sia in senso positivo che in senso negativo.

Iniziamo sfatando uno dei miti più radicati nelle credenze popolari, ovvero quello che porta a credere che non si possano associare carboidrati e proteine. Per smentire questo mito basterebbe pensare che gli alimenti che mangiamo più frequentemente e che rappresentano la base della dieta mediterranea, mi riferisco ai cereali, sono naturalmente composti da zuccheri e proteine insieme. Inoltre, nessuno ha mai dimostrato che fare una dieta dissociata, separando i carboidrati dalle proteine possa avere alcun benefico per la salute. Nella pasta il 12-15% dei nutrienti è rappresentato dalle proteine e quindi anche la pasta mangiata da sola non può essere considerata “carboidrati senza proteine”. 

Per rimanere sui cereali possiamo affermare che uno degli abbinamenti più classici e salutari è quello rappresentato dall’unione tra pasta e fagioli oppure tra riso e piselli. Infatti, le proteine vegetali sono in genere carenti di alcuni aminoacidi essenziali, ma abbinando pasta e legumi si mescolano proteine carenti di un aminoacido essenziale come la lisina (scarso nella pasta ma abbondante nei legumi) con altre (quelle dei legumi) che lo contengono ma sono carenti di metionina a sua volta abbondante nelle proteine della pasta.

Un altro esempio positivo riguarda l’abbinamento dell’ananas o della papaia con le carni, in quanto la presenza della bromelina (enzima proteolitico) in quel tipo di frutta può favorire la digestione delle proteine. Sempre in ambito di combinazione virtuosa troviamo quella del limone, dell’arancia o del kiwi con la carne perché la presenza abbondante di vitamina C in questi frutti trasforma il ferro della carne dalla forma ferrica a quella ferrosa, più biodisponibile e quindi aiuta a migliorare l’utilizzo di questo importante minerale necessario per prevenire e curare varie forme di anemia.

Gli abbinamenti positivi non si fermano qui. Cosa c’è di più naturale di condire un pomodoro con l’olio extravergine di oliva? Il pomodoro contiene dei carotenoidi e in particolare il licopene con eccezionali proprietà antiossidanti. L’olio, da parte sua è il miglior grasso da condimento perché ha una composizione in acidi grassi che aiuta a ridurre il colesterolo cattivo e ad aumentare quello buono oltre a contenere un altro antiossidante straordinario che è la vitamina E. Messi insieme, olio e pomodoro potenziano il loro effetto; infatti, il licopene è liposolubile e quindi il suo assorbimento aumenta notevolmente in presenza di grassi come l’olio. In modo analogo, il pesce, soprattutto quello azzurro essendo ricco in omega 3, grassi molto utili e salutari, può essere un alimento che facilita l’assorbimento di alcune vitamine liposolubili come la A, la D, la E, e la K e di conseguenza le migliori associazioni potrebbero essere quelle che lo vedono abbinato con pomodoro, carote, rosso d’uovo e formaggi.

Ricordiamo anche che non c’è nessun motivo per non associare proteine vegetali con proteine animali ma anzi, per le loro differenti composizioni in aminoacidi, il nostro organismo necessita di entrambe in una proporzione equivalente, e quindi possiamo tranquillamente mangiare un panino con il formaggio oppure, una bistecca con i piselli senza alcun timore.

Ci sono invece alcuni abbinamenti che sono controproducenti. Ci sono infatti alcuni alimenti come i legumi (in particolare i fagioli ma anche la soia) che contengono molti fitati, sostanze che si legano ad alcuni minerali come, per esempio, il calcio e il ferro impedendone il loro assorbimento. Quindi attenzione all’abbinamento dei legumi con i formaggi o latticini soprattutto per chi soffre di osteoporosi o anemia perché è in grado di ridurre l’assorbimento di questi nutrienti. Quindi chi cerca i benefici del calcio mangiando formaggi, o del ferro, consumando la carne dovrebbe avere l’accortezza di non mangiare questi alimenti insieme ai legumi. 

Un discorso analogo riguarda alcune verdure come spinaci, bietola, pomodoro e sedano (oltre che di nuovo i legumi). Questi ortaggi contengono molti ossalati  che in modo simile ai fitati si legano con facilità a sali minerali come calcio, zinco e selenio interferendo in modo consistente nella loro biodisponibilità e quindi nella possibilità di utilizzo da parte dell’organismo.

Esistono, inoltre, alcune condizioni patologiche dove fare attenzione agli abbinamenti diventa molto importante per ridurre l’impatto negativo dell’alimentazione sui sintomi. Per esempio, per chi soffre di sindrome dell’intestino irritabile gli abbinamenti da evitare sono la birra con la pizza (perché si sommano gli effetti di una probabile difficoltà alla digestione degli amidi con il gas della birra) oppure le patate con i legumi. Sia le patate che i legumi contengono amidi e zuccheri difficilmente digeribili oltre a sostanze come le lectine e agglutinine che rendono difficoltoso l’assorbimento delle proteine. Infine, la presenza di inibitori delle proteasi nei legumi può ostacolare il lavoro degli enzimi digestivi e quindi consumarli insieme ad alimenti ricchi di proteine potrebbe facilmente creare problemi a chi soffre di sindrome dell’intestino irritabile.  

Chi soffre di emicrania dovrebbe evitare di abbinare vino e formaggio perché entrambi possono scatenare una crisi di cefalea, mentre per chi soffre di gonfiore addominale questo abbinamento può favorire la produzione di gas intestinale soprattutto se questi alimenti vengono consumati in un pasto ricco di brassicacee (cavoli, broccoli e cavolfiore). 

Chi è affetto da malattia da reflusso gastroesofageo dovrebbe rinunciare a combinare cioccolato, menta e liquirizia per ridurre il rischio dei classici disturbi di acidità e bruciore. Anche mescolare bevande gassate e agrumi può dare origine ai sintomi.

Anche il sonno può essere influenzato da certi abbinamenti alimentari, alcuni in positivo e altri in negativo. Per esempio, combinare alimenti come vino, formaggio e cioccolato può essere controproducente per chi soffre di insonnia perché contengono tiramina, aminoacido precursore dell’adrenalina che ostacola le varie fasi del sonno.

Al contrario, il latte nell’intestino di alcuni individui può dare origine alla comparsa delle casomorfine, sostanze che possono conciliare il sonno soprattutto se abbinate agli zuccheri o ad alimenti che contengono triptofano (precursore della serotonina) come le uova, le nocciole, le arachidi, i legumi o il pesce, o ad altri che contengono melatonina come funghi, semi di girasole e avena.

E alla fine arriva la frutta. Ma è vero che mangiata a fine pasto fa male alla salute? Sebbene non ci sia nessun fondamento scientifico per sconsigliare la frutta a fine pasto ci sono due situazioni nelle quali è meglio evitarla. 1) in una dieta dimagrante, perché togliendola dopo il pasto costa meno fatica avendo meno fame, e spostandola a metà mattina e a metà pomeriggio si aggiungono due spuntini quando se ne sente di più il bisogno senza aumentare l’apporto calorico. 2) in corso di “post prandial distress” condizione patologica nella quale è presente un rallentato svuotamento gastrico che si traduce in difficoltà a digerire e pesantezza di stomaco dopo mangiato.

CORRETTE PORZIONI E FREQUENZE DI CONSUMO

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Quando si parla di alimentazione ci si ferma abitualmente al concetto legato al tutto o niente. Ovvero un alimento “fa bene” o “fa male” in base a stereotipi generici o appartenenti all’immaginario collettivo e raramente ci si addentra nella complessità dell’argomento. Non esistono in realtà alimenti “buoni” o “cattivi” ma esiste il concetto di proporzionalità come suggerito egregiamente dalla grafica della piramide della dieta mediterranea (figura 1) dove appare chiaro che non esiste una discriminazione in termini di scelte di alimenti ma quello che deve guidare le logiche di una sana alimentazione sono ispirate alla proporzionalità e alla frequenza di consumo di alcuni cibi rispetto ad altri.

Sia i LARN (livelli di assunzione di riferimento) (1) che le Linee Guida italiane per una sana alimentazione (2) hanno chiarito dettagliatamente come le porzioni e le frequenze di consumo rappresentino l’obiettivo principale di insegnamento in una corretta campagna di educazione alimentare. I LARN definiscono porzione standard la quantità di alimento che si assume come unità di riferimento riconosciuta e identificabile sia dagli operatori del settore nutrizionale e sia dalla popolazione. La porzione standard deve essere coerente con la tradizione alimentare e di dimensioni ragionevoli, in accordo con le aspettative del consumatore. È una unità di misura di riferimento della quantità di alimento consumata e può essere espressa in unità naturali o commerciali effettivamente visualizzabili (ad es. frutto medio, fetta di pane, fetta di prosciutto, lattina, scatoletta ecc.) oppure in unità di misura casalinghe di uso comune (ad es. cucchiaio, mestolo, bicchiere, tazza ecc.). La porzione rimane comunque un concetto approssimativo e puramente indicativo sebbene molto importante. Una singola porzione può variare in funzione dell’esigenza calorica dell’individuo, della sua età, del suo sesso, della sua attività fisica, della soddisfazione personale, della sua sfera psicologica e della sua capacità organizzativa giornaliera. Pertanto, appare sbagliato considerare la porzione come un dogma insormontabile. Piuttosto, diventa opportuno considerare che un regime alimentare venga suggerito partendo da questo concetto di porzione per poi adattarsi alle singole esigenze individuali in modo da personalizzare il modello alimentare. Analogamente a questo concetto si esprime quello delle frequenze di consumo. Questo significa che una volta definita la porzione, diventa importante stabilire quante volte questa porzione può essere consumata in un giorno, o in una settimana, dal consumatore. A questo proposito, le linee guida per una sana alimentazione (2) hanno indicato le frequenze di consumo in base all’ammontare di differenti quote di calorie totali giornaliere assunte dal consumatore, cercando in questo modo di modulare e personalizzare l’assunzione degli alimenti in modo più congeniale alle reali necessità, sebbene, come abbiamo detto, l’apporto complessivo giornaliero rappresenta soltanto uno dei parametri da considerare in un’ottica di personalizzazione.

Ecco, quindi, che la scelta degli alimenti da utilizzare in una corretta dieta alimentare non deve tenere conto soltanto della composizione in macronutrienti (carboidrati, lipidi, proteine, fibre e acqua) o molecole bioattive (polifenoli, antiossidanti, fitosteroli, fitoestrogeni) o dell’apporto calorico perché, alla luce delle attuali conoscenze, sarebbe fortemente riduttivo se non andiamo oltre prendendo anche in considerazione il concetto di “quanto” e “quando” assumere gli stessi alimenti. 

Sappiamo che la dieta mediterranea non esalta un singolo alimento rispetto ad un altro, ma che al contrario valuta nel loro insieme la combinazione di vari alimenti e li associa ad un regolare svolgimento dell’attività fisica. Gli alimenti base della dieta mediterranea come sappiamo sono: frutta e verdura (apportano vitamine, sali minerali, polifenoli, antociani, acqua, fibra), cereali (carboidrati complessi e proteine), pesce (proteine di elevato valore biologico, omega 3, sali minerali), legumi (proteine di medio valore biologico, fibra, carboidrati complessi), olio (acidi grassi MUFA e PUFA, vitamine, polifenoli, molecole bioattive). Diciamo che questi sono gli alimenti base proprio perché sono quelli che devono essere consumati in maggior quantità (porzioni) e con maggior frequenza. Il concetto di porzione e frequenza permette peraltro di non escludere dalla dieta mediterranea anche gli altri alimenti, i cui consumi devono essere definiti anch’essi da porzioni e frequenze e mai esclusi. Ci riferiamo per esempio alle carni, ai prodotti dolciari e ai condimenti. Questo è molto importante perché l’aspetto edonistico, sociale, psicologico e conviviale del cibo rappresenta una dei cardini moderni della dieta mediterranea. I nutrienti apportati da questi altri alimenti sono altrettanto importanti per la salute (zuccheri, grassi, sali minerali ecc.) e il loro apporto in una corretta alimentazione è altrettanto valido ed opportuno se si rispettano anche per loro i concetti di porzione e frequenza. La proibizione immotivata non è salutare ma soprattutto non è necessaria. Anche la restrizione eccessiva può essere controproducente. Un recente report della commissione EAT Lancet suggerisce un progetto di dieta universale prendendo come riferimento la dieta mediterranea cercando di darle una veste di universalità per adattarla a tutti i paesi del mondo e genericamente a tutti gli individui andando in direzione opposta ai concetti di personalizzazione appena espressi.

Il problema di questo report sulla dieta universale è che dopo una banale e scontata dichiarazione di intenti e propositi, coraggiosamente suggerisce in modo particolareggiato le grammature dei singoli alimenti da ingerire da parte di ogni individuo. E qui non può che alzarsi una montagna di perplessità. Per fare qualche esempio. Si consiglia un consumo di 14 g al giorno di prodotti derivati dalla carne. Questo corrisponde a una piccola fettina di carne o una mezza bistecca a settimana. Il pesce, circa 200 g a settimana (una porzione), il pollo idem (una porzione a settimana) e le uova 2 a settimana (piccole però). Da sottolineare che non si tiene conto (e non sarebbe possibile farlo) delle enormi diversità tra giovani e anziani, sportivi e non, ecc.

Questa estremizzazione va probabilmente molto aldilà delle raccomandazioni della dieta mediterranea (che consiglia 1 o 2 porzioni, e non mezza, di carne rossa a settimana, più di due porzioni di pesce e di pollo e fino a 4 uova). Non ci sono evidenze che ridurre drasticamente questi alimenti sotto queste quantità porti dei vantaggi in termini di salute. Riducendo così tanto i prodotti di origine animale la commissione EAT si vede peraltro costretta, per garantire il fabbisogno proteico, ad aumentare in modo alquanto bizzarro le porzioni di cereali (232 g, ovvero 3 piatti di pasta al giorno) o di legumi (3 porzioni di 200 g a settimana, difficilmente tollerabili da chi soffre di colon irritabile o di gonfiore addominale) e di noci/mandorle (50 g al giorno per ben 300 calorie!) suggerendo un apporto calorico giornaliero di ben 2500 calorie! Diventa complicato combattere la piaga dell’obesità e promuovere la cultura dell’educazione alla riduzione dell’apporto calorico globale. Basterebbe essere meno ideologici e un po’ più pratici, e pensare che per avere 5 gr di proteine le noci apportano 300 calorie, mentre una porzione da 150 gr di merluzzo apporta ben 25 g di proteine con solo 100 calorie.  

In conclusione, possiamo affermare che una sana alimentazione si ispira alla varietà e alla diversità (2) e che la gamma di alimenti che offre la dieta mediterranea, il miglior modello scientificamente validato, consente di non escludere alcun alimento. Quello che invece deve essere tenuto in debito conto è il concetto di porzione e di frequenza di consumo, un criterio che deve essere basato, però, sull’idea di personalizzazione e non determinato da schemi ideologici. 

  Figura 1.           PIRAMIDE DELLA DIETA MEDITERRANEA

RIFERIMENTI

  1. https://sinu.it/wp-content/uploads/2019/07/20141111_LARN_Porzioni.pdf
  2. https://www.crea.gov.it/documents/59764/0/LINEE-GUIDA+DEFINITIVO.pdf/28670db4-154c-0ecc-d187-1ee9db3b1c65?t=1576850671654
MANIPOLAZIONE DEGLI ALIMENTI E METODI DI COTTURA

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Quando analizziamo i benefici di una sana alimentazione e degli alimenti che la compongono prendiamo sempre in considerazione la composizione naturale degli stessi e gli effetti, benefici o nocivi che siano, che questi esercitano sullo stato di salute. Nella pratica quotidiana però, sia nella filiera produttiva che nella preparazione domestica dei piatti in cucina, gli alimenti possono subire modifiche anche consistenti del loro stato presente in natura. La trasformazione industriale degli alimenti deve soddisfare imprescindibili requisiti di sicurezza, conservazione, praticità, trasporto, distribuzione e palatabilità del prodotto affinchè il consumatore finale possa beneficiarne. Si tende sempre ad associare la manipolazione industriale degli alimenti a qualcosa di dannoso e negativo che può comportare esclusivamente perdita dei principi nutritivi e rischi per la salute. Ma è davvero così? Il livello di manipolazione di un alimento può essere valutato sulla base di classificazioni che misurano il grado di intervento nei processi di produzione del prodotto finale. La più nota è la classificazione NOVA (1).  Questa classificazione prevede quattro livelli di processazione:

  1. Cibi non trasformati o minimamente lavorati. Vi rientrano acqua, parti commestibili di piante (semi, frutti, foglie, steli, radici), funghi e alghe. Ma anche i prodotti di origine animale più semplici, come uova, latte, carni non lavorate.
  2. Ingredienti per la cucina domestica. Sono gli alimenti basilari per la preparazione e il condimento dei cibi. Oli e grassi, aceto e sale, zucchero, erbe aromatiche e spezie, etc. difficilmente si usano in assenza di alimenti del gruppo 1.
  3. Alimenti trasformati (processed food). Fanno parte di questo gruppo alimenti ottenuti con lavorazioni semplici. Pane, pasta, formaggi, carni e pesci nelle lavorazioni più semplici, conserve vegetali, verdure in lattina. Si trovano preparazioni con massimo 2 o 3 ingredienti.
  4. Alimenti ultraprocessati. Si tratta di preparati realizzati con più di 4 elementi e possono includere anche composti presenti negli alimenti minimamente trasformati come sale, grassi, oli, antiossidanti, conservanti, coloranti, dolcificanti e altri additivi per esaltare il sapore. Lo scopo di questi prodotti è quello di fornire piatti o bevande pronti per il consumo o semplici da riscaldare. Abitualmente sono oggetto di campagne di marketing e pubblicità. Esempi sono gli snack, barrette alimentari, piatti pronti, pizza o dolci precucinati, gelati preconfezionati, zuppe istantanee.

Sebbene esistano studi che sembrano mettere in correlazione gli alimenti del gruppo 4 (ultraprocessati) con una maggior rischio di patologie, siccome i processi di produzione di un alimento ultraprocessato sono così vari risulta impossibile e poco scientifico attribuire un’etichetta di non salubrità a tutti questi prodotti appartenenti a questa categoria al momento attuale. L’aggiunta di un additivo o la preparazione a monte di un alimento non necessariamente può essere collegata ad un rischio per la salute se non si tiene conto della qualità dell’alimento di partenza e del reale processo produttivo preso singolarmente. Per esempio, un trattamento ad alta temperatura può ridurre la presenza di qualche nutriente ma non necessariamente rende il prodotto pericoloso per la salute. Lo stesso si può dire per l’aggiunta di un conservante o per l’abbinamento di più alimenti nella preparazione di un piatto pronto. Vale poi sempre il discorso delle quantità, perché esistono alimenti che pur contenendo “naturalmente” sostanze pericolose il loro consumo abitualmente parsimonioso li rende estremamente sicuri. Un esempio è il basilico che, pur rientrando secondo la classificazione NOVA in classe 1 (naturale e pertanto considerato “sicuro”) contiene il metil eugenolo, sostanza possibilmente cancerogena secondo la classificazione IARC.

Anche i metodi di cottura influenzano i profili nutrizionali degli alimenti. Cucinare il cibo può presentare vantaggi (favorisce la sicurezza microbiologica, migliora la biodisponibilità di alcuni nutrienti come il licopene del pomodoro e la vitamina B dell’uovo, consente la digeribilità di amidi e proteine ecc.) o svantaggi (porta alla perdita di nutrienti e di vitamine termolabili e alla formazione di prodotti tossici in caso di alte temperature).

Quando prendiamo in esame un alimento valutiamo i nutrienti che abitualmente sono presenti al momento della raccolta in condizioni di piena stagionalità, della pesca o della macellazione, ma la cottura del prodotto modifica sostanzialmente la sua composizione o la disponibilità delle sostanze che contiene. Prendiamo per esempio la frittura. Anche quando rispetta i migliori criteri in termini di olio, durata, forma della padella e tempi di cottura, a causa delle alte temperature che si sviluppano in presenza dei grassi (presenti nell’olio o nel burro utilizzati o nell’alimento stesso) si verifica una reazione di perossidazione, con conseguente formazione di radicali liberi. Ecco che un pesce, ricco di omega 3 dagli effetti positivi, può trasformarsi in fonte di radicali liberi con la loro cattiva abitudine di “invecchiare” le cellule. Inoltre, se durante la frittura si raggiunge o supera il punto di fumo dell’olio o del burro si formano alcune sostanze come la acroleina, molto tossica per il fegato oltre che cancerogena. È dunque importante conoscere questa temperatura che è specifica per ogni tipo di olio o di burro, e come si può immaginare è più sicura quanto più alta essa sia perché più difficile da raggiungere. La frittura peraltro penalizza quasi tutte le verdure riducendo in modo rilevante il loro potere antiossidante, tranne cicoria, cavoletti di bruxelles, patate e carciofi (2).

Anche la cottura alla griglia della carne, a causa delle alte temperature, può favorire la denaturazione delle proteine e degli aminoacidi (rendendoli inutilizzabili), la formazione degli idrocarburi policiclici e la perossidazione dei grassi.

Gli zuccheri, con le temperature elevate, possono dare origine a sostanze  potenzialmente tossiche (come si verifica nella reazione di Maillard che dà origine alla crosta del pane e al suo profumo). Inoltre, alcune vitamine come la C e l’acido folico sono molto termolabili e con le cotture prolungate ad alta temperatura tendono a scomparire. Anche la maggior parte dei polifenoli sparisce con la cottura.

La cottura, d’altro canto, è indispensabile alla salute fondamentalmente perchè abbatte drasticamente il rischio di contaminazione degli alimenti da parte di batteri e funghi (basti pensare all’importanza della pastorizzazione, che consente il consumo del latte senza rischi di tubercolosi, brucellosi e altre infezioni).

Inoltre, la cottura permette la digestione da parte dei succhi gastrici di alimenti come la carne, il pesce, la pasta o il pane altrimenti inutilizzabili o potenzialmente pericolosi. Alcuni nutrienti, contrariamente a quanto si tenderebbe a credere, sono più facilmente utilizzabili dall’organismo dopo la cottura. Un esempio classico è rappresentato dalla vitamina B12 delle uova, che vede la propria biodisponibilità aumentare con la cottura grazie all’azione di quest’ultima nel favorire la scissione della vitamina dalla avidina, sostanza alla quale è legata.

Anche la biodisponibilità dei carotenoidi delle carote aumenta con la cottura perché questi si liberano della matrice che li lega. I carciofi grazie alle temperature della cottura aumentano di biodisponibilità di un carotenoide particolare, la luteina. 

La bollitura è il metodo che ne offre la maggiore disponibilità (quasi 10 volte di più) ma anche la frittura rende i carotenoidi dei carciofi più fruibili (4 volte di più). Per i broccoli invece la cottura non offre alcun vantaggio, anzi determina una perdita importante della vitamina C presente in abbondanza nel prodotto fresco.

Le antocianine e i flavonoidi in genere si perdono con la cottura. Il riso rosso può arrivare a perderne l’80% con la cottura a pressione.

Come possiamo vedere non esiste un metodo ottimale di cottura. La cottura degli alimenti in termini generali è molto utile per la salubrità e la digeribilità dell’alimento e dovrebbe riguardare prevalentemente i prodotti di origine animale. In questo caso cerchiamo di privilegiare le cotture a bassa temperatura e di breve durata. I prodotti vegetali invece tendono a dare il meglio per la nostra salute se consumati crudi anche se abbiamo visto non essere una regola.

Bibliografia

  1. Monteiro CA, Cannon G, Levy RB et al. NOVA. The star shines bright.
    Food classification. Public health] World Nutrition January-March 2016, 7, 1-3, 28-38 World Nutrition Volume 7, Number 1-3, January-March 2016 
  2. Pellegrini N, Miglio C, Del Rio D, Salvatore S, Serafini M, Brighenti F. Effect of domestic cooking methods on the total antioxidant capacity of vegetables. Int J Food Sci Nutr. 2009;60 Suppl 2:12-22. doi: 10.1080/09637480802175212. 
BUONE PRATICHE PER EVITARE GLI SPRECHI ALIMENTARI 

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Cosa intendiamo quando parliamo di sprechi alimentari? Per il Ministero della Salute, si definisce spreco alimentare “l’insieme dei prodotti scartati dalla catena agroalimentare, che per ragioni economiche, estetiche o per la prossimità della scadenza di consumo, seppure ancora commestibili e quindi potenzialmente destinati al consumo umano, sono destinati ad essere eliminati o smaltiti” Il Waste Watcher, International Observatory on Food & Sustainability nel suo action program (WRAP), includendo anche porzioni di cibo non commestibili (come risulta anche nella direttiva 2018/851 dell’Ue), distingue il food waste in:

  • evitabile (cibo e bevande finiti in spazzatura ma ancora edibili, come pezzi di pane, mele, carne, ecc.)
  • possibilmente evitabile (cibo e bevande che alcune persone consumano, per esempio le croste del pane, e altre persone no; ma anche il cibo che può essere consumato se cucinato, per esempio la buccia di patate)
  • inevitabile (ossi di carne, bucce d’uovo, d’ananas ecc.).

I numeri dello spreco in Italia sono impressionanti. Secondo una indagine pubblicata sul Corriere della Sera nel 2023 ogni anno in Italia vengono sprecati 8.65 milioni di tonnellate di cibo (1) con il 73% che si verifica in casa pari ad una perdita di 385 euro per ogni cittadino. 

Oggi circa un terzo del cibo prodotto in tutto il mondo viene sprecato. Si tratta di oltre 1,6 miliardi di tonnellate, a fronte delle 5,3 disponibili. Si stima che, salvando appena un quarto del cibo che diventa rifiuto alimentare, si potrebbe riuscire a nutrire a sufficienza coloro che soffrono la fame: 828 milioni di persone (+5,6% rispetto al 2020 e +22,1% rispetto al 2019).

Vediamo quali sono le principali cause dello spreco alimentare.

  1. Insufficiente pianificazione della spesa alimentare
  2. Attività promozionali commerciali (per esempio paga uno e prendi due)
  3. Confusione tra data di scadenza e termine minimo di conservazione (da consumarsi preferibilmente entro…)
  4. Scarsa dimestichezza nella preparazione dei cibi
  5. Scarsa praticità delle confezioni (difficilmente svuotabili o troppo grandi)
  6. Giudizio sbagliato dell’aspetto estetico dell’alimento
  7. Porzioni standard e poco adatte a tutti i consumatori
  8. Scarsa capacità di prevedere il numero dei consumatori (soprattutto nella ristorazione collettiva) in particolare per prodotti stagionali
  9. Difetti di packaging
  10. Inadeguata conservazione (soprattutto a livello domestico) o trasporto (mancato rispetto della catena del freddo)
  11. Mancata consapevolezza del rischio e dei costi dello spreco alimentare e del valore del cibo
  12. Vita frenetica e scarsa programmazione alimentare domestica

Come si può osservare oltre ad alcune cause legate al packaging o a previsioni di consumo su larga scala, la maggior parte delle cause dello spreco alimentare avviene in ambito domestico e appare evidente come una corretta campagna di educazione e consapevolezza potrebbe avere un impatto enorme sulla riduzione degli sprechi alimentari. A livello collettivo il Ministero della salute nel 2016, in condivisione con le Regioni e province autonome, ha elaborato delle linee guida per limitare gli sprechi nelle mense scolastiche e aziendali (2). Tutti gli attori devono svolgere il loro ruolo nel tentativo di ridurre lo spreco alimentare, dai produttori a chi processa gli alimenti, ai consumatori e alle autorità regolatorie e di sorveglianza.  Il Ministero della Salute ha stilato un elenco di consigli volti a ridurre lo spreco (3) che partono dalla pianificazione dei pasti prima di fare la spesa così da andare al supermercato con un programma studiato, in modo da limitare le improvvisazioni che possono più facilmente condizionare gli acquisti in base all’appetito, alle offerte, alle presentazioni pubblicitarie accattivanti e alle modalità di presentazione sugli scaffali. È fondamentale, al momento dell’acquisto, leggere le etichette per valutare la previsione dei consumi in funzione delle scadenze dei prodotti. Arrivati a casa, una regola da seguire con molto rigore è quella di disporre correttamente in frigorifero o nella dispensa gli alimenti appena acquistati seguendo una certa razionalità. Questo significa non solo collocare gli alimenti nei ripiani e nei comparti dedicati per garantire una corretta conservazione in base alle differenti temperature, ma cercando di mettere davanti, in prima vista, gli alimenti più vicini alla data di scadenza e gli altri, appena acquistati, dietro. Il consumatore deve prestare molta attenzione alla differenza tra “data di scadenza” che indica il limite oltre il quale il prodotto non deve essere consumato, e “termine minimo di conservazione” che indica che il prodotto, oltre la data riportata, può subire modifiche di alcune caratteristiche organolettiche come il sapore e l’odore ma può essere consumato senza rischi per la salute. Deve inoltre adottare l’accortezza, nel caso di utilizzo di confezioni non richiudibili, di riporre gli alimenti avanzati in contenitori ermetici per mantenere la freschezza e le proprietà organolettiche più a lungo possibile, garantendo inoltre un certo isolamento così da evitare di trasferire o ricevere odori da altri alimenti conservati in prossimità. La frutta e la verdura vanno tenute in bella vista e quando cominciano a mostrare segni di “invecchiamento” possono essere usate per preparare frullati, minestroni, zuppe o torte (dolci o salate). Infine, è importante che il consumatore usi tutta la sua fantasia per preparare ricette che possano sfruttare al massimo gli alimenti conservati prima che perdano la loro fragranza e soprattutto tenendo conto delle porzioni che intende preparare analizzando se tra i commensali ci siano bambini, anziani o persone inappetenti o a dieta per qualunque motivo (di salute o per dimagrire). A volte anche solo osservare i rifiuti prodotti in casa può sensibilizzare il consumatore e renderlo più consapevole dei suoi sprechi alimentari.

Referenze

  1.   Sprechi alimentari, a ogni italiano costano 385 euro all’anno
  2.   Linee di indirizzo rivolte agli enti gestori di mense scolastiche, aziendali, ospedaliere,  sociali  e  di comunità, al fine di prevenire e ridurre  lo  spreco  connesso  alla somministrazione  degli  alimenti
  3.   Regole utili

Il 60% degli italiani ha fiducia nella scienza e nel progresso tecnologico. Il 78% ne conosce i vantaggi

In occasione dellaGiornata Mondiale della Sicurezza Alimentare, proclamata il 7 giugno dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, oggi alla Camera dei Deputati è stato presentato l’evento “La sicurezza alimentare è scienza”, promosso e organizzato dal Cluster Agrifood Nazionale CL.A.N. con lo scopo di aumentare la consapevolezza e l’importanza che la sicurezza alimentare riveste per i cittadini, illustrandone i progressi metodologici, i processi e gli scenari futuri del food safety.

“È con grande piacere che colgo questa opportunità per portare un saluto al Presidente Mascarino e a tutti voi e per sottolineare, a nome del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e di tutto il Governo, la nostra vicinanza a organizzazioni come la vostra, che giocano un ruolo cruciale nel settore agroalimentare. Il nostro impegno è quello di sostenere e promuovere l’opera di organizzazioni che, con dedizione e competenza, contribuiscono alla sicurezza alimentare, anche attraverso l’innovazione e la creazione di nuove competenze. Siamo certi che grazie alla vostra collaborazione e al nostro supporto, riusciremo a costruire un futuro più sicuro e prospero per l’agroalimentare italiano”. È quanto ha dichiarato il Ministro dell’Agricoltura, della Sostenibilità Alimentare e delle Foreste, Francesco Lollobrigida in un messaggio di saluto inviato agli organizzatori in occasione dell’apertura dei lavori.

Per Paolo Mascarino, Presidente del Cluster Agrifood Nazionale CL.A.N. e di Federalimentare: “Dall’evento odierno, il dato che emerge con chiarezza è che per gli italiani la scienza, la tecnologia e l’innovazione sono le soluzioni per contrastare i rischi legati alla sicurezza alimentare. È un dato che ci conforta perché il ruolo che svolgiamo in materia di ricerca e innovazione è percepito come indice di qualità e di fiducia verso il settore, che rappresenta un valore indiscusso per garantire ai consumatori cibo sicuro, buono e ben fatto”.

L’evento, seguendo la risoluzione dell’Assemblea generale dell’ONU che “invita tutte le autorità, l’industria, i consumatori, le organizzazioni internazionali competenti, le ONG e il mondo accademico a partecipare alle attività di promozione della sicurezza alimentare a tutti i livelli” ha chiesto all’Istituto Piepoli di interrogare i cittadini italiani su quale fosse il loro grado di fiducia nella scienza, nel progresso tecnologico e nell’industria alimentare e quali i rischi percepiti per il raggiungimento della sicurezza alimentare che per le Nazioni Unite rappresenta uno degli obiettivi di sviluppo sostenibile che gli Stati membri dell’ONU sono chiamati a raggiungere entro il 2030.

Fiducia nella scienza e nell’industria: giovani in testa 

Il 60% degli italiani intervistati ha fiducia nel progresso scientifico e tecnologico e la fetta più ampia appartiene ai giovani fra i 18 e i 34 anni che rappresentano il 75% del dato complessivo aggregato. Anche l’industria alimentare, grazie al suo processo produttivo, svolge un ruolo molto importante nel consolidare questo “sentiment” positivo e i giovani sono coloro che lo esprimono maggiormente. Per l’80% c’è l’etichettatura degli alimenti, seguito dalla certificazione di qualità (79%) e dalla trasparenza (78%). Osservando il dato complessivo aggregato rivolto all’industria, la fiducia della popolazione è pari al 71%.

Ricerca scientifica: conoscenza e vantaggi 

La ricerca scientifica ha fatto breccia tra i consumatori. Il 78% degli intervistati, infatti, dichiara di conoscere una o più applicazioni in materia. Il 25% la identifica con l’etichettatura alimentare intelligente, il 21% con la conservazione degli alimenti, mentre un 20% con l’agricoltura di precisione e con l’intelligenza artificiale. La scienza poi è percepita come un vantaggio. Per il 35%, infatti, grazie all’innovazione c’è una maggiore conservazione degli alimenti, per il 32% aumenta la produttività e per il 28% si riduce lo spreco alimentare. Senza l’uso di tecnologie applicate al settore alimentare, invece, per il 31% degli intervistati i rischi maggiori potrebbero riguardare la perdita dell’autenticità di alcuni prodotti, per il 25% verrebbero compromessi i livelli occupazionali, mentre per il 27% potrebbe aumentare l’uso degli OGM.

Rischi alimentari percepiti. Tv e Internet media più seguiti

Per gli italiani è ampio il ventaglio dei rischi alimentari percepiti, che spazia tra tutte e tre le aree di rischi alimentari (biologico, chimico e fisico) che comprendono antibiotici o ormoni ma anche preoccupazioni legate al cibo conservato in maniera non corretta o scaduto e alla presenza di OGM (20%). Più bassi i dati riferiti alla presenza di corpi estranei (micro-plastiche) per il 18%; cibo proveniente da Paesi non controllati 17%, mentre per il 16% i rischi sono legati alla presenza di virus o batteri. Tv e Internet sono le fonti più accreditate e anche quelle considerate fra le più affidabili quando si parla di temi legati alla food safety. Per il 59% degli italiani, infatti, la televisione è il mezzo di informazione più affidabile e credibile, seguito da Internet per il 19%. Giornali, stampa, social media e influencer invece sono i meno affidabili e sono giudicati rispettivamente al 14%, al 6% e all’1%. Anche per quanto riguarda la divulgazione, la Tv risulta il media più diffuso per il 62% degli italiani, seguito da Internet al 38% e dalla stampa al 23%.

Giacomo Vigna, Direzione generale per la Politica Industriale, la Riconversione e la Crisi Industriale, l’Innovazione, le PMI e il Made in Italy del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, ha dichiarato: “La sicurezza alimentare, declinata nelle sue varie forme, tocca anche l’industria alimentare che sa giocare un ruolo fondamentale in questo contesto. È un’industria che, grazie alla scienza, riesce a tenere in vita prodotti più a lungo, garantendo il fabbisogno interno e l’export. Il Mimit con grande piacere e passione supporta tutta l’industria agroalimentare e presta molta attenzione ai consumatori”.

Per il Prof. Emanuele Marconi, Presidente CTS Cluster Agrifood Nazionale CL.A.N e Direttore del CREA: “Il processo applicato agli alimenti garantisce la sicurezza alimentare, la disponibilità e l’accesso al cibo, l’adeguatezza nutrizionale, l’accettabilità sensoriale, la riduzione degli sprechi in un contesto di economia circolare e sostenibilità ambientale, etica, sociale e culturale. La ricerca e l’innovazione tecnologica nel settore alimentare sono infatti indirizzati al continuo miglioramento della sicurezza e della qualità degli alimenti attraverso la riduzione del danno termico e meccanico, delle contaminazioni chimiche e biologiche e dell’impiego dei mezzi chimici e degli additivi e coadiuvanti tecnologici”.

Francesco Cubadda, Coordinatore del LNR Nanomateriali ed esperto EFSA – Istituto Superiore di Sanità: “Garantire la sicurezza degli alimenti in un contesto planetario e produttivo in continuo cambiamento è una sfida difficile. L’Europa gode oggi degli standard più elevati in tema di sicurezza alimentare: per fare in modo che questo continui ad essere vero nel futuro è richiesto impegno su tanti fronti. Sul fronte della conoscenza e degli approcci scientifici a tutela della salute umana, i continui progressi metodologici nella valutazione dei rischi in sicurezza alimentare testimoniano che gli strumenti sono all’altezza della sfida”.

Per Claudia Zoani, Coordinatore Infrastruttura METROFOOD.IT – ENEA: “Lo sviluppo di prodotti agroalimentari sostenibili, nonché la promozione di diete sane, passa per la sicurezza alimentare. E la ricerca scientifica svolge quotidianamente un ruolo fondamentale per accrescere le nostre conoscenze sulla sicurezza alimentare: in questo contesto si inserisce l’attività di METROFOOD.IT, l’infrastruttura di ricerca nazionale a supporto dei sistemi agroalimentari finanziata nell’ambito del PNRR e coordinata da ENEA, che si propone come interfaccia tra ricerca e innovazione, attori industriali e consumatori, mettendo in campo azioni di trasferimento tecnologico, così da spingere lo sviluppo di conoscenze e competenze a supporto dell’agroalimentare”.

Secondo Giorgio Donegani, Portavoce Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Tecnologi Alimentari: “Ciò che emerge, come dato estremamente positivo, è la dimensione strutturale nella quale si colloca l’approccio alla sicurezza alimentare nel nostro Paese. Una dimensione nella quale la ricerca scientifica, le più avanzate metodologie di controllo, le tecniche più innovative di produzione e conservazione, possono esprimere il massimo delle loro potenzialità grazie a un efficace coordinamento e supporto a livello istituzionale per offrire massima tutela dei consumatori e dell’eccellenza di tutto il nostro sistema agroalimentare”.

“Federalimentare ringrazia il Ministro dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare, Francesco Lollobrigida, per essersi adoperato affinché il nuovo Governo portoghese revocasse l’ordinanza che introduceva il Nutriscore, ereditata dal precedente esecutivo”. Lo scrive in una nota il Presidente di Federalimentare, Paolo Mascarino.

“La notizia che il Portogallo non applicherà la norma sul Nutriscore, riferita dallo stesso Ministro Lollobrigida, è molto importante”, spiega Mascarino, “in primo luogo perché riporta l’unità tra i Paesi del Mediterraneo su questo tema, in secondo perché conferma il progressivo arretramento del Nutriscore in tutta Europa. Negli ultimi mesi, infatti, in Francia e in Germania alcuni importanti marchi hanno deciso di non esporre più l’etichetta a semaforo, mentre in Svizzera, dopo che entrambi i rami del Parlamento si sono espressi per limitare “gli effetti problematici del Nutriscore”, anche la più grande catena di distribuzione e il principale fornitore di prodotti lattiero- caseari hanno abbandonato il sistema francese”.

“Considerato che la Spagna ne ha da tempo bloccato l’adozione e che in Romania il Nutriscore è vietato per legge poiché ingannevole per i consumatori, crediamo che i tempi siano maturi affinché l’Europa decida di orientarsi su modelli meno fallaci e discriminatori, capaci di indurre realmente i cittadini a seguire diete più sane e bilanciate”, conclude Mascarino.

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