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IL RISCATTO DEI CEREALI RAFFINATI

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista –  Università Campus Biomedico di Roma

Insieme a un corretto stile di vita, seguire una dieta sana, varia e bilanciata è fondamentale per poter vivere in salute e prevenire alcune patologie. Questo il risultato a cui sono giunti gli studi scientifici rivolti a comprendere come prevenire le più importanti malattie dei paesi occidentali come l’obesità e le patologie ad essa correlate come diabete, malattie cardiovascolari e tumori. 

Il dilagare dell’obesità ha un’origine multifattoriale e vede tra i principali fattori una cattiva educazione alimentare e comportamentale. Purtroppo, e ingiustamente, la risposta dietetica che viene spesso messa in atto è quella di ridurre gli zuccheri o carboidrati (“carbofobia”, paura dei carboidrati) e di aumentare le proteine (diete Atkins e Scarsdale negli anni Settanta e, più di recente, Dukan e Paleolitica). 

Una corretta educazione alimentare si basa sul concetto che i nutrienti non sono intercambiabili e ciò spiega perché sia sbagliato sostituire gli zuccheri con le proteine, come sostengono alcune diete poco salutari. 

I carboidrati e i lipidi svolgono un ruolo prevalentemente energetico e solo in piccola parte funzionale. Le proteine, al contrario, sono destinate a compiti plastici e di funzionalità, e solo in caso di forzata necessità possono essere utilizzate a fini energetici. Se si segue una dieta eccessivamente iperproteica e, di conseguenza, con pochi carboidrati, succede che l’organismo si vede obbligato a sopperire alla carenza di “benzina” (gli zuccheri, appunto) bruciando le proteine ingerite o, peggio ancora, cannibalizzando le strutture nobili come i muscoli, per produrre quel glucosio mancante ma essenziale, in quanto alimento quasi esclusivo per la sopravvivenza e il buon funzionamento delle cellule cerebrali e dei globuli rossi. I carboidrati, inoltre, rappresentano il combustibile di elezione per i muscoli durante l’attività̀ fisica soprattutto nelle prime fasi dell’attività aerobica e, quindi, sono essenziali per lo sportivo. Un’alimentazione eccessivamente iperproteica è sconsigliabile anche perché affatica fegato e reni, obbligati a lavorare di più per smaltire i composti azotati derivati dalla scomposizione molecolare delle proteine, che sarebbero altrimenti tossici per l’organismo. 

La fonte privilegiata dei carboidrati è rappresentata dai cereali perché forniscono prevalentemente carboidrati complessi che hanno un impatto minore sull’aumento della glicemia e sulla stimolazione della secrezione insulinica. Sappiamo che i cereali integrali rispetto a quelli raffinati forniscono un plus in termini di fibre, sali minerali e vitamine e hanno un impatto più favorevole sullo stato di salute. Questo concetto ha portato purtroppo alla demonizzazione delle farine “bianche” considerate pericolose per la salute. Fermo restando il concetto che le farine integrali hanno un profilo nutrizionale più completo rispetto a quelle bianche, il reale impatto di queste ultime sullo stato di salute non sembra assolutamente dimostrare una correlazione tra il loro consumo e l’incidenza di patologie. 

In una review del 2020 sono stati valutati i rapporti tra consumo di cereali raffinati e impatto sulla salute. Sono stati presi in considerazione un totale di 135 articoli e nella grande maggioranza dei casi non sono state riscontrate associazioni tra il consumo di alimenti a base di cereali raffinati e malattie cardiovascolari, diabete, aumento di peso o mortalità generale. L’insieme delle evidenze dimostra che il consumo dei raffinati, fino al 50% del totale di cereali (senza elevati livelli di grassi, zuccheri o sodio aggiunti), non è associato ad alcun aumento del rischio di malattie, sebbene resti valida la raccomandazione di aumentare il consumo di cereali integrali per raggiungere una quantità superiore alla metà del consumo complessivo di cereali. (1)

Le linee guida dietetiche raccomandano di aumentare il consumo di cereali integrali e allo stesso tempo di limitare il consumo di alimenti a base di cereali raffinati e/o arricchiti ma le ricerche emergenti suggeriscono che alcuni cereali raffinati potrebbero far parte di un modello alimentare sano. Un gruppo di esperti si è riunito per esaminare i dati pubblicati a partire dalla pubblicazione delle linee guida dietetiche americane del 2015 ed elaborare una consensus conclusiva. Sulla base di una tavola rotonda, il gruppo di esperti ha raggiunto un consenso sul fatto che 1) i cereali integrali e quelli raffinati possono fornire un contributo nutritivo significativo ai modelli alimentari, 2) i cereali integrali e raffinati contribuiscono alla densità dei nutrienti, 3) l’arricchimento e il potenziamento dei cereali rimangono vitali per garantire l’adeguatezza dei nutrienti nella dieta americana, 4) non esistono solide prove scientifiche a favore del fatto che i cibi a base di cereali raffinati siano collegati al sovrappeso e all’obesità e 5) esistono lacune nella letteratura scientifica per quanto riguarda i cereali e la salute. (2)

Il comitato che ha definito le linee guida dietetiche americane del 2015 ha raccomandato che per migliorare la qualità della dieta, la popolazione statunitense dovrebbe sostituire la maggior parte dei cereali raffinati con cereali integrali. Questa raccomandazione si basava in gran parte sui risultati di studi che esaminavano modelli dietetici complessivi e non gruppi alimentari separati. Un modello dietetico occidentale in genere include carne rossa processata, cibi e bevande zuccherati, patatine fritte e latticini ad alto contenuto di grassi, nonché cereali raffinati, e questo modello alimentare è stato collegato ad un aumento del rischio di molte malattie croniche. Tuttavia, quando questi cibi sono stati valutati come categorie alimentari distinte, 11 meta-analisi di studi di coorte prospettici, che includevano un totale di 32 pubblicazioni con dati da 24 coorti distinte, hanno dimostrato che l’assunzione di cereali raffinati non è associata ad un aumento della mortalità per tutte le cause, ma neanche per le singole malattie come diabete tipo 2, malattie cardiovascolari, malattia coronarica, ictus, ipertensione o cancro. Il consumo di cereali raffinati fino a 6-7 porzioni/giorno (1 porzione = 30 g) non è stato associato a un rischio più elevato di malattia cardiovascolare, diabete, ipertensione o di morte di qualunque causa. Inoltre, l’assunzione totale di cereali è stata associata a un rischio inferiore di mortalità per tutte le cause. Di conseguenza, la raccomandazione di ridurre l’assunzione di cereali raffinati basata sui risultati di studi che collegano un modello alimentare occidentale a numerosi effetti negativi sulla salute non è suffragata da un corpo sostanziale di prove scientifiche pubblicate. La ricerca futura deve valutare meglio l’impatto dell’assunzione di cereali raffinati separata da altre abitudini alimentari per consentire una corretta definizione dei benefici dei cereali integrali rispetto ai cereali raffinati. (3)

In conclusione, possiamo affermare che quello che sembra essere importante per una dieta sana è consumare una quantità adeguata di cereali. Tra questi, quelli di farina integrale hanno una composizione nutrizionale più ricca e il loro consumo dovrebbe essere incentivato perché attualmente è molto scarso, ma il consumo in quantità adeguata di quelli raffinati non sembra essere correlato in modo evidente ad un maggior rischio di patologia. 

Bibliografia

  1. Papanikolaou Y, Do Refined Grains Have a Place in a Healthy Dietary Pattern: Perspectives from an Expert Panel Consensus Meeting. Curr Dev Nutr 2020;4:nzaa125. 
  2. Williams PG, Evaluation of the evidence between consumption of refined grains and health outcomes doi:10.1111/j.1753-4887.2011.00452.x  Nutrition Reviews® 
  3. Gaesser GA, Perspective: Refined Grains and Health: Genuine Risk, or Guilt by Association? AdvNutr 2019;10:361–371. 

I COLORI DI FRUTTA E VERDURA

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista – Università Campus Biomedico di Roma

A tutti è capitato di ascoltare le raccomandazioni relative al consumo di frutta e verdura. La quantità di questi alimenti che abitualmente troviamo nelle indicazioni salutistiche o nelle linee guida per una sana alimentazione si aggira intorno alle famose cinque porzioni giornaliere. Ma la frutta e la verdura sono tutte uguali? Le cinque porzioni riguardano qualunque tipologia abbiamo voglia di assumere? Ovviamente no, perché non esiste un frutto (o una verdura) in grado di fornire da solo tutte le vitamine, minerali e molecole bioattive di cui abbiamo bisogno, e di conseguenza potrebbe essere di aiuto una guida facile per comprendere come e quali scegliere. Lo strumento più semplice è quello di farsi guidare dai colori, perché il colore di frutta e verdura permette di orientarci sulla loro composizione e pertanto una corretta e completa variazione dei colori nell’arco di una settimana consente di garantire un apporto adeguato dei nutrienti che frutta e verdura possono fornire. 

ROSSO (ravanelli, pomodori, peperoni rossi, barbabietole). La caratteristica della frutta e della verdura di colore rosso è rappresentata dalla presenza dei carotenoidi. I carotenoidi sono un gruppo di pigmenti di colore rosso molto diffusi in natura (come frutti e ortaggi) e agiscono come antiossidanti proteggendo il vegetale dagli effetti nocivi delle radiazioni solari. Una volta entrati nell’organismo umano svolgono, come tali, la stessa funzione sulla pelle per essere trasformati successivamente in vitamina A che compie altre funzioni come favorire la visione notturna, aiutare la crescita di organi e tessuti, facilitare il lavoro del sistema immunitario e consentire la tolleranza alimentare. Tra i vari carotenoidi il licopene (l’unico a non trasformarsi in vitamina A) occupa un posto speciale. Il licopene lo troviamo in particolare nel pomodoro dove è più abbondante nella buccia (54 mg per 100 g) rispetto alla polpa (11 mg per 100 g) perché è più concentrato ma è meno biodisponibile. È stato dimostrato da numerosi studi scientifici che questo particolare carotenoide possiede una spiccata azione nel diminuire il colesterolo cattivo (LDL) circolante nel sangue. Infatti, il licopene riduce la funzione dell’enzima deputato alla produzione di colesterolo e allo stesso tempo aumenta l’attività dei recettori “spazzini” presenti su molte cellule dell’organismo e in particolare su quelle del fegato. In questo modo il risultato finale è quello di abbassare il livello di colesterolo circolante. Ma la sua azione non finisce qui. Infatti, è stato scoperto che il colesterolo cattivo esercita la sua azione dannosa sulle arterie del nostro corpo non solo favorendo la crescita delle placche aterosclerotiche ma anche in seguito alla sua ossidazione favorita dall’abbondanza dei radicali liberi. Il licopene, in virtù della sua spiccata azione antiossidante, rende il colesterolo cattivo molto meno aggressivo e passibile di deposito.

Da altri studi si è osservato come il licopene del pomodoro, sempre grazie all’azione antiossidante, svolge un ruolo preventivo nella comparsa di vari tipi di tumore.

Una caratteristica del licopene è quella di essere presente maggiormente nei prodotti cotti rispetto a quelli freschi perché la cottura lo trasforma dalla forma trans a quella cis che è più efficace e disponibile. I prodotti confezionati come la passata e la salsa ne hanno di più anche se il prodotto che ne contiene di più in assoluto rimane il pomodoro secco.

BIANCO (aglio, cipolle, cavolfiori, finocchi, funghi, mele, pere, porri, sedano, noci, nocciole, castagne).

 Questo colore identifica alcuni alimenti che sono ricchi di potassio e fibra. Il potassio è un minerale essenziale per la corretta funzionalità di muscoli e nervi dato che è il responsabile della trasmissione dell’impulso nervoso. È, pertanto, determinante anche nella corretta funzionalità del cuore e del sistema nervoso. È inoltre il minerale maggiormente presente in tutte le cellule dell’organismo ed è necessario per garantire una corretta secrezione di acido nello stomaco e per regolare il corretto pH dell’organismo.

La fibra (in particolare quella solubile) costituisce l’alimento principe per la selezione e lo sviluppo di un sano microbiota grazie alla capacità di dare origine agli acidi grassi a catena corta come il butirrato, molecola essenziale per il nutrimento delle cellule del colon, per il mantenimento dell’integrità della barriera intestinale e per regolare il metabolismo dei nutrienti e la trasmissione neuro-ormonale gastrointestinale. Aiuta inoltre, a favorire la prevenzione del tumore del colon e a ridurre la velocità di assorbimento degli zuccheri e del colesterolo. 

GIALLO-ARANCIONE (cachi, arance, mandarini, limoni, carote, peperoni gialli, meloni, zucche). Il colore giallo arancio caratterizza gli alimenti ricchi di vitamina C, carotenoidi e flavonoidi. La vitamina C permette la sintesi del collagene, agisce come potente antiossidante, interviene in molte reazioni enzimatiche comprese quelle del sistema immunitario, e nel metabolismo degli aminoacidi. I flavonoidi sono molecole con azione antiossidante e antiaging, aiutano a mantenere lo stato di salute di vene e capillari.

VERDE (bietole, broccoletti, broccoli, cavolo cappuccio, carciofi, cetrioli, cicoria, insalate, piante aromatiche, zucchine, kiwi). Negli alimenti di colore verde troviamo il magnesio, abbondante nella clorofilla, il potassio e i folati. Il contenuto corporeo di magnesio nell’organismo adulto è di 20 – 28 g circa: il 60% è presente nelle ossa, il 39% nei compartimenti intracellulari e circa l’1% nei liquidi extracellulari. Il magnesio svolge un ruolo fondamentale in un gran numero di importanti reazioni cellulari. Ha anche ricoperto un ruolo importante nell’evoluzione biologica, in quanto componente della clorofilla e dei composti contenenti legami altamente energetici come il complesso Mg- ATP. È pertanto essenziale in molti processi metabolici (biosintesi dei lipidi, delle proteine e degli acidi nucleici, formazione del “secondo messaggero” AMP-ciclico e glicolisi) oltre che in processi di trasporto di membrane energia-dipendenti. Il magnesio partecipa all’attività di oltre 300 sistemi enzimatici. 

I folati sono essenziali per ridurre i livelli di omocisteina del sangue (fattore di rischio per le malattie cardiovascolari) e per la protezione del DNA cellulare riducendo in questo modo il rischio di alcuni tumori. Inoltre, i folati svolgono un ruolo determinante nella corretta formazione degli organi fetali durante la gravidanza e in particolare quello di prevenire la comparsa della spina bifida. Affinché la sua azione sia efficace è necessaria una presenza adeguata di vitamina B12, a dimostrazione di quanto sia importante l’integrazione alimentare in una sana alimentazione

BLU/VIOLA (melanzane, radicchio, prugne, uva nera, more, mirtilli). Questo colore identifica quegli alimenti ricchi di antociani, flavonoidi e vitamina C. I benefici degli antociani si osservano prevalentemente a livello della piccola circolazione con effetto protettivo sui capillari migliorando la vista, le piccole insufficienze venose e i gonfiori di tipo vascolare. Alcuni studi hanno osservato anche una azione antiaging sulle cellule e un rallentamento delle patologie neurodegenerative con miglioramento di quei parametri comportamentali che si riducono con l’età quali equilibrio, coordinazione, memoria di lavoro e memoria di riferimento. In particolare, i microcostituenti del mirtillo a livello cerebrale riducono la suscettibilità dei neuroni agli effetti a lungo termine dello stress ossidativo e dei meccanismi infiammatori che sono alla base dei processi degenerativi.

L’importanza del ruolo di frutta e verdura in una sana alimentazione viene sottolineata in tutte le pubblicazioni scientifiche e raccomandazioni sanitarie. Nel loro insieme devono essere presenti 5 volte al giorno (almeno 4). Queste 4-5 porzioni giornaliere servono a garantire l’apporto dei loro principi nutritivi caratteristici, vale a dire vitamine, fibre, polifenoli, sali minerali e zuccheri. Per porzione si intende convenzionalmente un frutto grande qualsiasi – una mela o una pera – ovvero tre albicocche, due kiwi, dieci ciliegie e così via; quanto alla verdura, cento o centocinquanta grammi di prodotto.

Si tende però a parlare di frutta e verdura spesso in termini generici, come se si trattasse di un alimento unico, mentre è prioritario tenere a mente che ogni frutto e ogni verdura ha delle caratteristiche che ne contraddistinguono la funzionalità come abbiamo visto. Ecco anche perché è l’insieme che conta (anche se questo riguarda tutti gli alimenti della dieta mediterranea, non solo frutta e verdura). Non è pensabile che un solo frutto o una sola verdura, o anche un piccolo gruppo di esse, possa offrire la totalità delle sostanze necessarie all’organismo sia in termini di quantità che di qualità. Insomma, il radicchio piuttosto che la carota o il cavolfiore offrono proprietà predominanti peculiari e magnifiche che si completano soltanto tra di loro; da soli, non sarebbero sufficienti. 

Infine, ricordiamo che sarebbe meglio consumare frutta e verdura fresche, di stagione e che possibilmente abbiano viaggiato poco. Non tutti però possiamo concederci un orto dal quale attingere quotidianamente e pertanto, in considerazione dell’importanza strategica di questi alimenti in una sana alimentazione non bisogna disdegnare quelle forme di conservazione che permettono a tutti di consumarli in quantità adeguate. Il congelamento o l’imbustamento di quarta gamma (almeno per le verdure) rappresentano ottime forme di conservazione che permettono di mantenere il più a lungo possibile quei nutrienti così importanti per la nostra salute.

ALIMENTAZIONE NELLA TERZA ETA’

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Per terza età si intende il periodo che va dai 65 ai 75 anni, oltre i 75 anni parliamo di quarta età. È importante considerare la situazione degli anziani perché l’Italia è il primo Paese in Europa in quanto a presenze di anziani nella popolazione. Gli anziani obesi tra i 65 e i 74 anni sono il 53 per cento degli uomini e il 39 per cento di donne, mentre dopo i 75 anni la percentuale cala rispettivamente al 43 e 35 per cento. Ma anche mangiar poco in base alla maggiore età è un errore tragico nel quale incappano molti. Infatti, molti anziani vanno a dormire convinti che una tazza di latte e pochi biscotti sia una cena. Purtroppo, per colpa delle difficoltà economiche o della solitudine si osserva anche una elevata incidenza di  malnutrizione per difetto, e questa condizione riguarda in particolare i più deboli e indifesi, socialmente e economicamente.

L’alimentazione dell’anziano necessita di attenzioni particolari perché le problematiche sono diverse e maggiori rispetto alla popolazione generale. Ecco perché gli anziani hanno maggiori criticità:

– Sono più frequenti alcune patologie collegate con l’alimentazione: ipertensione arteriosa, diabete, osteoporosi, malassorbimento, insufficienza renale, insufficienza epatica, disturbi della masticazione e della deglutizione, stipsi.

– Hanno una minore percezione dei sapori e quindi tendono a salare e a zuccherare di più gli alimenti con ripercussione sulla salute.

– Hanno un ridotto stimolo della sete e questo li porta ad una disidratazione cronica latente con ripercussioni muscolari, neurologiche e renali.

– Svolgono scarsa o nessuna attività fisica e questo implica differenti fabbisogni, ridotto metabolismo, ripercussioni sulla funzionalità muscolo- scheletrica. 

– Assumono spesso molti farmaci (molte volte inutili e somministrati per “inerzia sommatoria” in aggiunta ad altri farmaci già in terapia prescritti da un altro specialista) e questo può alterare l’assunzione corretta di alimenti per interferenza o effetti collaterali (nausea, inappetenza, diarrea).

– Sono spesso depressi e soli. Questo comporta un progressivo disinteresse nell’alimentazione e indirizza il consumo verso un regime monotono e ristretto anche per motivi di praticità e di economia (perché si tratta spesso di persone con scarsi introiti economici) che dà origine ad una condizione di progressiva malnutrizione che a sua volta determina una maggiore predisposizione alle malattie ed infezioni.

– Il deterioramento cerebrale cognitivo e di movimento porta ad un isolamento culturale e sociale con la conseguente difficoltà a percepire la necessità di una alimentazione corretta ed equilibrata, e al riconoscimento di prodotti avariati o scaduti.

Una corretta alimentazione è il primo passo per proteggere l’anziano dalla comparsa o dall’aggravamento di alcune patologie. La malnutrizione sia in eccesso (obesità) che in difetto rappresenta il primo fattore di rischio per le malattie degenerative, infettive e tumorali perché senza i giusti nutrienti i sistemi di difesa del nostro organismo non possono funzionare bene. 

Per la prevenzione e la cura di queste e altre patologie gioca dunque un ruolo importantissimo l’alimentazione, partendo da un presupposto semplice e cioè che da bambini si deve mangiare da bambini, da adulti si deve mangiare da adulti e da anziani si deve mangiare da anziani.
Gli anziani rischiano anche di soffrire di una forma di analfabetismo di ritorno, abbandonando gli interessi culturali e purtroppo cosa più grave ancora di diventare poveri (lo sono il 25% degli ultrasessantacinquenni). Tutto questo insieme di fattori fa si che gli anziani trascurino il cibo o mangino cibi sbagliati per la loro età, e che proprio la cattiva alimentazione inneschi una spirale senza ritorno. Capita anche con frequenza che gli anziani facciano uso di cibi senza controllare le scadenze, o che non leggano le etichette contenenti le caratteristiche del cibo e il suo corretto utilizzo. Spesso soli in casa o incapaci a spostarsi si accontentano di mangiare quel che trovano.

Una corretta alimentazione negli anziani deve tenere conto del fabbisogno energetico, dei principi nutritivi, del frazionamento dei pasti e di regole di igiene e comportamento alimentare. Ogni soggetto ha bisogno di una determinata quantità di energia giornaliera che si riduce dopo i 65 anni a causa di un abbassamento del metabolismo basale. I principi nutritivi presenti nei nostri alimenti sono sei, acqua, sali minerali, vitamine, proteine, grassi e carboidrati, e gli anziani non devono rinunciare a nessuno di loro. Invece, gli anziani spesso mangiano male. Troppo o troppo poco. E incorrono nei due rischi opposti come abbiamo visto, l’obesità o la malnutrizione.
Se già normalmente la dieta per un individuo deve essere prescritta da un medico, in quanto atto medico, a maggior ragione nell’anziano diventa fondamentale un’attenta valutazione del soggetto in questione. Quindi, il primo punto fondamentale è valutare il paziente anziano nel suo insieme, prendendo in considerazione non solo le sue patologie e la farmacoterapia in corso, ma anche gli aspetti psicologici, il suo umore, i suoi interessi, la sua attività fisica e i suoi gusti. È importante considerare la presenza del sovrappeso che può a sua volta favorire la comparsa di severe patologie come il diabete, l’ipertensione, l’insufficienza cardiaca, fratture patologiche, difficoltà di movimento. Ma allo stesso tempo, è importante non sottovalutare i suoi fabbisogni nutrizionali. Infine, migliorare l’alimentazione dell’anziano può rappresentare il primo passo per evitare l’uso di alcuni farmaci.

Si possono individuare alcuni errori che gli anziani fanno a tavola:

– monotonia dei piatti con rischio di carenza di alcuni nutrienti

– scarso apporto di acqua

– eccesso di sale e zucchero

– scarso apporto di fibra e proteine

– rischio di assunzione di prodotti di scarsa qualità o scaduti

È bene consigliare all’anziano gli alimenti più adatti alle sue necessità e patologie, tenendo conto non solo della composizione in zuccheri, grassi e proteine, fibre e vitamine ma anche della consistenza e della temperatura. Consistenze errate possono rendere l’alimento non utilizzabile dall’anziano anche quando la sua composizione in nutrienti sia ottimale. A questo proposito va ricordato che gli anziani spesso hanno problemi di deglutizione. La difficoltà più frequente è quella di gestire alimenti con diversa consistenza come, per esempio, i tortellini in brodo che vanno evitati nei soggetti con problemi di deglutizione perché la contemporanea presenza di alimenti liquidi e solidi può mandare in crisi le capacità di discriminare, contenere, e coordinare i vari movimenti molto complessi dell’atto deglutitorio. Quindi, tortellini o brodo sì ma separatamente e non insieme. 

VADEMECUM PER L’ALIMENTAZIONE NELLA TERZA ETA’

– Mangiare variato

– Masticare gli alimenti con cura per migliorarne la digestione

– Fare pasti leggeri e frequenti

– Consumare almeno tre pasti nella giornata, e quindi non saltare mai la prima colazione

– Una tazza di latte o una minestrina, come cena, non assicurano un adeguato apporto di energia e nutrienti

– Cucinare in modo semplice senza eccedere con i grassi da condimento e le salse

– Salare le pietanze con moderazione

– Mangiare tutti i giorni cereali (pane, pasta, riso, crackers, polenta, ecc.)

– Contenere la quantità di zucchero da tavola e limitare le bevande zuccherine

– Per evitare la stipsi mangiare tutti i giorni verdure (fresche o surgelate, crude o cotte) ed almeno un frutto di stagione ben maturo

– Bere acqua frequentemente, nel corso della giornata, anche se non si avverte lo stimolo della sete 

– Bevande alcoliche? si ma solo sporadicamente, a bassa gradazione (vino o birra), in quantità moderata e possibilmente durante i pasti. Chi non beve alcolici non cominci a farlo ora

– Dolci sì, ma con parsimonia e compatibilmente con le patologie (no per i diabetici per esempio)

– Integrazioni di vitamine e sali minerali se il medico lo giudica necessario e alle dosi consigliate

– Leggere le etichette riportate sulle confezioni degli alimenti: si potrà conoscere il modo di preparare e conservare il cibo acquistato e la relativa scadenza

– Se si hanno disturbi della masticazione controllare i denti e consumare alimenti morbidi, quali purè, minestre, uova, pesci, carni tritate, formaggi freschi, yogurt

– consumare pane tenero, mollica di pane ed in alternativa grissini e fette biscottate

– scegliere frutta ben matura e facile da schiacciare come banane, pesche, pere, fragole oppure preparare frullati con la frutta più dura o spremute con gli agrumi

Le regole di vita: 

– È preferibile mangiare in compagnia: organizzarsi con gli amici 

– Fare passeggiate all’aria aperta tutti i giorni

– Curare la propria persona

– Coltivare hobby (bocce, gioco delle carte, dama, scacchi, parole crociate)

– Mantenere attiva la sfera sessuale

– Mantenere interesse per gli avvenimenti e seguire i cambiamenti della società. 

Pertanto:

– Leggere giornali e libri (anche fumetti)

– Guardare la televisione 

– Ascoltare la radio

– Andare al cinema o al teatro 

– Partecipare a gruppi e collettività culturali o ricreative

– Figli, nipoti, parenti da frequentare il più possibile perché oltre alla trasmissione della gioia affettiva, rappresentano il contatto con il mondo per interposta persona. 

IL BUONO DEL CIOCCOLATO

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Il pensiero del cioccolato, al di là della piacevolezza del suo consumo, richiama abitualmente un concetto di alimento pericoloso in quanto ipercalorico e ricco di zucchero, ed è spesso oggetto di demonizzazione quando lo si analizza da un punto di vista nutrizionale. Come stanno veramente le cose? Dobbiamo davvero starne alla larga?

Molti alimenti possiedono, oltre ad una azione energetica e nutriente, effetti addizionali potenzialmente utili alla salute e per tale motivo vengono considerati alimenti funzionali. Un alimento è definito funzionale se, oltre alle sue proprietà nutrizionali, è scientificamente dimostrata la sua capacità di influire positivamente su una o più funzioni fisiologiche, contribuendo a migliorare lo stato di salute e a ridurre il rischio di insorgenza delle malattie correlate al regime alimentare. Classici alimenti funzionali possono essere considerati lo yogurt, i broccoli, il pomodoro, i legumi e le noci. Nel concetto classico di alimento funzionale viene sottolineata l’importanza dell’azione benefica sulle funzioni organiche di un individuo, ma viene trascurato l’aspetto positivo legato agli effetti psicologici e gustativi che si possono aggiungere a quelli organici, migliorando di molto la qualità di un alimento rendendolo, anche per questo, funzionale. L’opportunità di valutare anche gli aspetti psicologici e gustativi di un alimento rilancia il ruolo di un alimento particolare, non solo ricco di nutrienti, di energia e di sostanze benefiche per la salute, ma anche fonte di piacere: il cioccolato. Raccomandato fin dall’antichità in caso di astenia, oggi spesso viene bandito, per il suo elevato valore calorico, nei paesi come l’Italia dove l’obesità rappresenta un importante problema sanitario.

In realtà, le proprietà del cioccolato vanno ben oltre il semplice apporto calorico. L’elevato contenuto in ferro, potassio e sostanze nervine (teobromina) offre la possibilità di impiego terapeutico in numerose condizioni morbose. La presenza di flavonoidi e di alcuni grassi vegetali poco aterogenici garantisce un’azione antiossidante e antiaggregante con il conseguente effetto cardioprotettivo. Inoltre, la stimolazione dei recettori cannabinoidi ad opera di alcune sostanze neuroattive conferisce a questo alimento la particolarità di determinare una sensazione di benessere indipendente dal senso di sazietà legato all’assunzione di un cibo calorico.

La scienza medica ha studiato a fondo gli effetti farmacologici del cioccolato in relazione agli effetti sul sistema nervoso centrale e sulla psiche, ma fin dall’antichità, quando il rigore del metodo scientifico ancora non esisteva, veniva impiegato come  alimento divino di cura tra le popolazioni Olmec, Azteche e  Maya (1) o, nel XVI° secolo, come vera e propria arma terapeutica nel trattamento della fatica (2), della febbre e dell’insufficienza cardiaca (3).

Tra il XVI° e il XX° secolo, il cioccolato più che un farmaco era considerato ciò che oggi chiameremmo uno strumento della medicina naturale, e veniva somministrato in modo empirico da artisti della medicina per curare i pazienti emaciati, per stimolare il sistema nervoso nei soggetti affetti da astenia (4), o per migliorare la digestione e la funzione intestinale (5). Sempre senza particolari motivazioni scientifiche, almeno per le conoscenze dell’epoca, veniva consigliato alle donne con scarsa capacità di allattamento e agli uomini per migliorare la virilità maschile, mentre il burro di cacao, per le sue proprietà emollienti ed isolanti, veniva impiegato nella cura delle ferite e delle irritazioni cutanee (4). Infine, il cioccolato poteva essere utilizzato come via di somministrazione di farmaci sotto forma di bevanda o grazie al burro di cacao per la fabbricazione di supposte.

Successivamente, la conoscenza scientifica ha permesso di capire (ma tuttora in modo non esaustivo) quali sono gli elementi del cioccolato che possono esprimere effetti farmacologici e nutrizionali.

Il cioccolato, inconsapevolmente, è stato forse il primo pilastro di un ponte teso tra scienza e credenza, e per questo potrebbe essere considerato l’anello di congiunzione tra la cultura popolare e la medicina scientifica nonché il simbolo di fusione tra la farmacologia e la terapia empirica.  

Il cioccolato è un alimento composto da vari nutrienti alcuni dei quali sono estremamente variabili e questo fatto conferisce ai diversi tipi di cioccolato caratteristiche nutrizionali, caloriche ed organolettiche decisamente differenti.

La pianta del cacao (Theobroma Cacao) è un albero di media grandezza che cresce allo stato selvatico in Amazzonia, e si coltiva in America centro-meridionale e nell’Africa tropicale. I semi amarissimi contenuti nel frutto contengono sostanze grasse (40-50%), amido, zuccheri, proteine e altre sostanze tra le quali teobromina e caffeina. La presenza di questi nutrienti, e in particolari dei grassi come il burro di cacao, fa la differenza tra il potere calorico nutrizionale del cacao rispetto a quello di altre sostanze nervine, spesso equiparate, come il caffè e il tè. 

Infatti, 100gr di polvere di cacao forniscono 355 Kcal, mentre un’equivalente quantità di polvere di caffè o di foglie di tè ne apportano 287 e 108 rispettivamente (6). Va considerato però che una tazzina di caffè contiene in media appena 6 grammi di polvere e una bustina di tè circa 2 grammi di foglie, mentre una tazza di cioccolata contiene circa 50 grammi di cioccolato (che rispetto alla semplice polvere di cacao fornisce 542 Kcal) ai quali vanno aggiunte le calorie di circa 200 ml di latte.

Pare evidente che il cioccolato rappresenta un alimento vero e proprio contenente proteine, grassi e carboidrati e che fornisce una notevole quantità di calorie ed è quindi comprensibile il suo impiego fin dall’antichità come ricostituente nei casi di astenia. 

Al contrario, nelle società occidentali di oggi come come quella italiana, dove il problema dell’obesità costituisce uno dei principali problemi sanitari, e la percentuale di soggetti con un indice di massa corporea (IMC) al di sopra del normale è in continua crescita, il cioccolato potrebbe essere additato come cibo da bandire, in particolare tra i bambini e gli adolescenti.

Siccome però la cultura del proibizionismo è risultata quasi sempre perdente, ecco che diventa importante l’educazione alimentare. Sapere quando il cioccolato può essere concesso, o addirittura consigliato, permette di accedere ai benefici di questo alimento limitando al massimo gli inconvenienti che può determinare la sua assunzione, anche perché le proprietà del cioccolato vanno al di là del semplice apporto calorico.

L’elevato contenuto in ferro (5 mg/100g) (quasi il doppio della quantità contenuta nella carne) potassio (300 mg/100g) e calcio (262 mg/100g nel cioccolato al latte) lo rendono un alimento utile (pur tenendo conto della non eccellente biodisponibilità) in corso di anemia, di ipopotassiemia, o nelle fasi della crescita laddove l’eccesso di peso o la presenza di diabete non ne sconsiglino l’utilizzo.

Come è stato detto, il cioccolato contiene, come il caffè e il tè, una di quelle sostanze (la teobromina) che viene annoverata come “nervina” perché esercita effetti sul sistema nervoso centrale stimolando l’attenzione e la vigilanza, e migliorando l’efficienza fisica e mentale. 

Gli effetti sul SNC di teobromina e di caffeina contenute nelle quantità abitualmente assunte di cioccolato sono meno evidenti di quelle osservate dopo assunzione di alcune tazzine di caffè. Questi effetti sono rappresentati da una maggiore rapidità e fluidità del pensiero e riduzione del tempo di reazione. I fenomeni di tolleranza a queste azioni osservati dopo il consumo abituale di queste xantine sono difficilmente osservabili con l’assunzione del cioccolato rispetto a quanto accade con il caffè, e lo stesso si può affermare in merito all’azione rebound in seguito all’eccessiva quantità di adenosina endogena liberata dopo brusca sospensione delle sostanze nervine (7).

La ricerca del cioccolato, osservata in modo quasi compulsivo in alcune persone, risulta essere qualcosa di più definito e mirato rispetto alla semplice voglia di cibo come gratificazione. Le etanolamine presenti agirebbero stimolando i recettori cannabinoidi del SNC sia direttamente che indirettamente aumentando i livelli di anandamide (8). Questo fatto potrebbe conferire al cioccolato la particolarità di determinare una sensazione di benessere indipendente dal senso di sazietà legato all’assunzione di un cibo calorico. 

Infine, il cioccolato, contenendo anche fenil-etilamine e tiramina, avrebbe in qualche modo un’azione anfetamino-simile riducendo il senso di stanchezza fisica e psichica, oltre ad attenuare i sintomi depressivi grazie all’abbondante presenza di triptofano, precursore della serotonina, uno dei mediatori neurochimici del benessere.

Molto è stato discusso sugli effetti del cioccolato sul sistema cardiovascolare. 

La presenza di elevati livelli di grassi che possono raggiungere il 37,6% in quello al latte (6) farebbe presupporre un alto rischio aterogenico. I grassi contenuti nel cioccolato derivano principalmente dal burro di cacao la cui composizione è rappresentata da acidi grassi saturi del tipo palmitico, stearico e laurico. Il laurico e il palmitico sono acidi grassi con un elevato potere aterogenico mentre l’acido stearico, per la sua veloce desaturazione ad acido oleico svolge un ruolo protettivo sui vasi (9). Invece, l’assenza di colesterolo e la notevole quantità di flavonoidi, sostanze con effetto antiossidante, inclinano la bilancia degli effetti cardiovascolari sul lato della protezione, anche perché i flavonoidi mostrano effetti antiaggreganti equivalenti all’aspirina (10).  Altri studi hanno peraltro dimostrato l’effetto vasodilatatore positivo del cioccolato amaro sulle coronarie (11).

Gli aspetti negativi del cioccolato sulla salute riguardano come già detto i pazienti obesi o quelli diabetici per il valore calorico di questo alimento e per la presenza di zuccheri semplici. Va inoltre considerato il rischio che l’assunzione del cioccolato possa dare origine ai sintomi della malattia da reflusso gastroesofageo e alla cefalea in alcune forme di emicrania.

In conclusione, possiamo affermare che consumato nelle giuste (moderate) quantità, il cioccolato costituisce una fonte preziosa di nutrienti e rappresenta una sorta di alimento funzionale per i benefici che può esercitare sulla psiche e sul sistema nervoso.

BIBLIOGRAFIA

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  2. Badianus Manuscript. De la Cruz, M. et al. 1552
  3. Florentine Codex  See de Sahagún, B. 1590
  4. Dillinger TL , Barriga P, Escárcega S, Jimenez M, Salazar Lowe D, Grivetti LEJournal of Nutrition. 2000;130:2057S-2072S Food of the Gods: Cure for Humanity? A Cultural History of the Medicinal and Ritual Use of Chocolate
  5. Hurtado T. Chocolate y Tabaco Ayuno Eclesiastico y Natural. Por Francisco Garcia, Impressor del Reyno 1645 A Costa de Mauel Lopez, Mercador de Libros Madrid, Spain.
  6. Carnevale E, Ciuccio F. Tabelle di composizione degli alimenti a cura dell’Istituto Nazionale della Nutrizione. Ed. Litho Delta 1989.
  7. Caprino L, Russo P. Bevande alcoliche e nervine. In: Mariani A, Cannella C, Tomassi G. Fondamenti di Nutrizione Umana. Ed: Il pensiero Scientifico Editore 1999; 253-273.
  8. di Tomaso E, Beltramo M, Pomelli D. Brain cannabinoids and chocolate. Nature 1996;382:677-678.
  9. Tomassi G. Grassi (o lipidi). In: Mariani A, Cannella C, Tomassi G. Fondamenti di Nutrizione Umana. Ed: Il pensiero Scientifico Editore 1999;223-252.
  10. Pearson DAPaglieroni TGRein DWun TSchramm DDWang JFHolt RRGosselin RSchmitz HHKeen CL   The effects of flavanol-rich cocoa and aspirin on ex vivo platelet function.Thromb Res. 2002;106(4-5):191-7.
  11. Flammer AJ, Hermann F, Sudano I et al. reactivity. Circulation. 2007 Nov 20;116(21):2376-82. 
SONNO E ALIMENTAZIONE

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

L’insonnia, o il semplice dormire male, è causa importante di malessere diurno, non solo per il fatto che spesso può comportare problemi di umore come irritabilità e nervosismo, cosa che tutti abbiamo sperimentato, ma secondo alcuni studi dell’Associazione Italiana di Medicina del Sonno pare che la mancanza di sonno provochi disturbi cardiovascolari e depressivi.

Il sonno gioca anche un ruolo importante nel funzionamento metabolico dell’organismo. Durante il sonno, infatti, il metabolismo si rallenta e di conseguenza l’organismo “consuma” di meno (sempre che il sonno sia tranquillo), ma è anche vero che il sonno prolungato equivale ad un digiuno, e in questa condizione si attivano alcune vie cataboliche al fine di mantenere costante il livello di glucosio nel sangue (unico nutriente utilizzato dal nostro cervello oltre ai corpi chetonici utilizzati in situazioni emergenziali) che portano al trasferimento del grasso contenuto nel tessuto adiposo verso il fegato per ottenere energia. Quindi l bilanciamento di questi due effetti contrari può portare conseguenze diverse da un individuo a un altro secondo la sua capacità metabolica di adattamento. Inoltre, il sonno di breve durata, o frequentemente interrotto, aumenta i livelli nel sangue della grelina (ormone con effetti antagonisti della leptina) e questo porterebbe ad un aumento dell’appetito diurno e, conseguentemente, del peso corporeo.

La durata ideale del sonno dovrebbe essere di circa otto ore, tempo necessario all’organismo per il recupero dei meccanismi cellulari ma questo è un dato puramente teorico.  Si sa che alcune persone riescono a svolgere la propria vita in modo efficiente anche dormendo poco e viceversa. È importante ricordare però che non tutti i sonni sono ristoratori. Non basta “rimanere incoscienti” per otto ore, è necessario che siano rispettati i ritmi e le profondità del sonno. Per esempio, la comparsa delle apnee notturne negli obesi o nei bronchitici cronici che frequentemente comportano una uscita dal sonno REM anche senza risveglio, sono la principale causa della sonnolenza diurna, della stanchezza al risveglio e dei colpi di sonno al volante. 

Come può aiutare l’alimentazione a garantire un buon sonno? Esistono dei cibi della buona notte?

Sicuramente si. Innanzitutto, bisogna evitare di andare a dormire subito dopo una cena abbondante o a digiuno, perché entrambe le condizioni possono ostacolare il sonno. Nel primo caso, con la posizione orizzontale, lo stomaco disteso può sollevare il diaframma rendendo più difficoltosa la respirazione nella fase di addormentamento e inoltre l’assorbimento dei nutrienti appena ingeriti mantiene attivo il sistema nervoso. Nel secondo caso, i bassi valori di glicemia possono attivare alcuni meccanismi volti alla ricerca del cibo che ostacolano il sonno.  

Oltre alle quantità e agli orari della cena è anche importante scegliere gli alimenti giusti per aiutare il buon sonno. Per esempio, sappiamo che il latte tende a conciliare il sonno. Questo è dovuto al fatto che alcune proteine del latte, in particolare la caseina, vengono digerite dalla pepsina, tripsina e carbossipeptidasi in peptidi dotati di attività biologica come le casomorfine che, stimolando i recettori oppioidi, conciliano il sonno. Il triptofano è un amminoacido precursore della serotonina e della melatonina e quindi gli alimenti che lo contengono (uova, nocciole, arachidi, legumi, carne e pesce) sono indicati nei soggetti che soffrono di insonnia. Sono anche utili a questo scopo gli alimenti ricchi di melatonina come l’avena, l’orzo e le mandorle. 

Bisogna evitare invece vino, formaggio, cioccolato e cavoli, perché contengono tiramina, una ammina che inducendo la sintesi dell’adrenalina rende il sonno più difficile. Sono anche sconsigliati gli alimenti e le bevande ricche di sostanze nervine come il cioccolato, il caffè, il tè e le bevande energizzanti. Molte sostanze contenute in questi alimenti 

possono esercitare un effetto eccitatorio sul sistema nervoso centrale anche se è importante sottolineare la grande differenza esercitata dal loro consumo saltuario rispetto a quello abituale, in quanto un consumatore occasionale può avere difficoltà a dormire dopo un solo caffè mentre un bevitore abituale può non notare alcun effetto. Anche l’alcol può interferire con il sonno perché è un inibitore del sistema nervoso centrale e può indurre sonnolenza dopo la prima fase di euforia.

Mangiare frutta e verdura e bere molta acqua durante il giorno può migliorare il sonno soprattutto nei soggetti che soffrono di crampi notturni. Questi tendono a comparire durante la notte perché assumiamo posizioni statiche prolungate che possono rendere più difficile l’irrorazione ai muscoli i quali possono andare in sofferenza soprattutto per la carenza di potassio e magnesio. Ecco che diventa importante assicurarsi , durante il giorno, un corretto apporto di sali minerali e vitamine per riposare meglio.

Infatti, tra i motivi responsabili di un cattivo sonno troviamo stress, ansia, farmaci, oppure fattori legati a sindromi particolari, come apnee notturne influenzate da un irregolare flusso di aria ai polmoni o il cosiddetto mioclono notturno, che consiste in scatti incontrollati delle gambe e nella comparsa di contrazioni muscolari (la sindrome delle gambe senza riposo). Queste sono problematiche per le quali sono necessarie analisi approfondite, come la polisonnografia (che monitora l’andamento del sonno) per accertare le cause dei disturbi.

Oltre ad intervenire con una cura appropriata in caso di disturbi fisiologici veri e propri, la sana alimentazione, in particolare riferita alle pietanze della cena, può essere di grande aiuto soprattutto se ricche di magnesio, e di vitamine del gruppo B, come la B3 (niacina) e la B6, indispensabili per il buon funzionamento del sistema nervoso e la corretta attività muscolare. 

Ecco nel dettaglio quali sono gli alimenti più indicati per un buon sonno. 

Cereali 

Tra gli alimenti che garantiscono un sonno di qualità c’è il riso, da preferire alla pasta e da scegliere nella variante integrale: tra le sue “performance” nutrizionalitroviamo la grande capacità calmante, grazie al maggiore indice glicemico e alla presenza del triptofano e quindi della serotonina. Proprio per il suo indice glicemico, e per il discreto contenuto calorico, è consigliabile mangiarlo comunque con moderazione, preferibilmente con un condimento leggero come un filo d’olio extravergine di oliva e delle verdure. I diabetici dovrebbero invece preferire la pasta alla sera rispetto al riso. Tra i cereali, anche l’avena e l’orzo, ottimi per una gustosa zuppa, possono contribuire a dormire meglio anche grazie al loro contenuto in melatonina. Così come latticini come la ricotta, anch’essi ricchi di triptofano, formaggi non stagionati, e naturalmente latte parzialmente scremato: berne una tazza calda prima di mettersi sotto le coperte è utile. 

Verdure e semi

Contro insonnia e cattivo riposo intervengono anche alcune verdure come spinaci e bietole, fonti di magnesio ma anche di clorofilla, che migliora l’apporto di ossigeno al sangue, oltre che di vitamine del gruppo B che favoriscono il rilassamento muscolare. Meglio mangiarli crudi, appena scottati o cotti al vapore, per non disperdere questi preziosi nutrienti.

Anche alcuni semi si rivelano grandi alleati del sonno, come quelli di zucca, piccoli forzieri di triptofano e magnesio, ma anche ricchi di fitoestrogeni naturali, carotenoidi, vitamina E. Ricordiamo che ananas e zenzero  contengono melatonina. Anche i semi di sesamo aiutano a riposare bene grazie al loro contenuto di magnesio, triptofano, vitamina B3.

Legumi e pesce azzurro

Ricchi di niacina sono anche i fagioli, in particolare quelli secchi, che possono contare su una buona percentuale di magnesio, sono molto proteici e sazianti. Importante anche la frutta secca, che riveste un ruolo fondamentale per l’armonia del ritmo sonno-veglia, soprattutto le mandorle (ma anche noci e nocciole), particolarmente ricche di magnesio e triptofano. Di quest’ultimo sono ottime fonti anche le sardine (così come gli altri pesci azzurri), che ne contengono ben 250 mg in un etto, insieme a una generosa percentuale di vitamina B6 e ai grassi buoni Omega 3, il tutto in 113 kcal per 100 grammi, che ben si conciliano con l’esigenza di stare leggeri a cena.

Cosa evitare se si soffre di insonnia.

Così come uno stomaco vuoto, uno stomaco troppo pieno non concilia il sonno, quindi meglio fare una cena non troppo abbondante e non abusare di alimenti molto ricchi di grassi, pesanti, ipercalorici, che ostacolerebbe la digestione e quindi il riposo. Evitate anche di abusare del sale, sostituendolo con spezie come basilico, origano, maggiorana, dagli effetti sedativi. No anche ad alcolici e super-alcolici, tè e caffè, dolci, che è meglio evitare di consumare a cena.

Il valore culturale della Cucina Italiana

Lorenzo M Donini

“Sapienza” Università di Roma

La declaratoria dell’UNESCO, che definisce la Dieta Mediterranea come patrimonio intangibile dell’Umanità, la descrive come “molto più di un semplice elenco di alimenti o una tabella nutrizionale” considerandola “uno stile di vita che comprende una serie di competenze, conoscenze, rituali, simboli e tradizioni concernenti la coltivazione, la raccolta, la pesca, l’allevamento, la conservazione, la cucina e soprattutto la condivisione e il consumo di cibo”.

L’arte culinaria è quindi un elemento caratterizzante la Dieta Mediterranea perché (continua la declaratoria) “mangiare insieme è la base dell’identità culturale e della continuità delle comunità nel bacino Mediterraneo, dove i valori dell’ospitalità, del vicinato, del dialogo interculturale e della creatività, si coniugano con il rispetto del territorio e dellabiodiversità”.

Le pratiche gastronomiche e la convivialità, nel bacino Mediterraneo, vanno di pari passo svolgendo “un ruolo vitale nei riti, nei festival, nelle celebrazioni, negli eventi culturali, riunendo persone di tutte le età e classi sociali”.

L’arte culinaria, implicita nella Dieta Mediterranea, è non solo l’amalgama di una vita comunitaria, ma è in grado di valorizzare anche “l’artigianato e le vocazioni locali, come la produzione di contenitori per la conservazione e il consumo di cibo, le manifatture artistiche di piatti e bicchieri di ceramica e vetro, l’arte del ricamo e della tessitura”.

Sempre secondo la declaratoria dell’UNESCO, la Dieta Mediterranea e l’arte culinaria sono valorizzate dalle donne che “giocano un ruolo fondamentale nella trasmissione delle conoscenze della Dieta Mediterranea in quanto si prendono cura dei famigliari e dei conoscenti preparando sia il cibo quotidiano che quello festivo e tramandano i loro segreti culinari a figli e nipoti, facendo dei banchetti festivi un’autentica celebrazione della vita”.

Tutti questi elementi di cultura e civiltà sono declinati nella grande varietà di tradizioni gastronomiche, che,probabilmente unico esempio al mondo, sono lo specchio di una storia che ha visto arrivare in Italia, stabilirsi e attraversarla popoli provenienti da tutti i punti cardinali, con il loro bagaglio di conoscenze, storia, alimenti, ricette. Una cucina, che si è radicata e si è evoluta nei diversi territori, valorizzando questi e le professioni dell’intera filiera agroalimentare, e che è stata interpretata in tanti modi diversi anche se con un minimo comun denominatore rappresentato dalla Dieta Mediterranea.

Questa esperienza interculturale, in una società che è sempre stata cosmopolita, ha favorito il dialogo tra i popoli e La contaminazione delle diverse tradizioni. Da qui nascono le mille ricette dell’arte culinaria Italiana, molto spesso caratterizzata dall’uso di prodotti dell’orto (verdure, ma anche erbe odorose) insieme a spezie e prodotti di altre tradizioni, che combinano i tanti diversi influssi e che riescono a stimolare in maniera così penetrante i nostri sensi (Capatti A, 2005).

Non solo, ma i continui contatti tra popoli e le conseguenti continue nuove esperienze di cibi nuovi, hanno portato alla coltivazione di tante diverse specie di frutta e ortaggi, al recupero e all’allevamento di tante diverse razze autoctone di animali fino a rappresentare, l’Italia, e la Cultura Gastronomica un importante baluardo della biodiversità sempre più minacciata in tante altre parti del Mondo da una sempre maggiore omogeneità dei consumi alimentari e dei sapori dei cibi.

Il concetto di biodiversità, valorizzato dall’Arte Culinaria Italiana, è uno degli elementi determinanti la sostenibilità di una filiera agroalimentare alla cui base sono presenti cereali, frutta, ortaggi, e olio di oliva, ma che considera tutti gli altri alimenti, nessuno escluso (carni, pesci, latte e derivati, dolci) come testimoniato dalla Piramide Alimentare Mediterranea in cui anche il vino, in dosi moderate e nell’ambito di uno stile di vita sano, può trovare spazio (Donini LM, 2024). Il concetto di sostenibilità, declinato nelle sue caratterizzazioni socio-culturale, economica, ambientale e nutrizionale, è ben valorizzato nel nostro Paese grazie proprio alla Cucina Italiana. Gli aspetti socioculturali (convivialità, consumo di produzioni prevalentemente locali, pratiche gastronomiche), la componente economica(valorizzazione dei territori e delle professionalità), la tutela dell’ambiente (minor consumo di acqua, terreno e energia, oltre a minor produzione di gas serra, tipici di una dieta basata prevalentemente su alimenti d’origine vegetale che non disdegna anche gli alimenti d’origine animale) e il valore nutrizionale (per la prevenzione della maggior parte delle malattie cronico-degenerative) rappresentano le caratteristiche della Dieta Mediterranea valorizzate dalle pratiche gastronomichedella Cucina Italiana (Dernini S, 2017; Serra-Majem LL, 2020).

Di non secondaria importanza, nell’ambito della promozione di una sempre maggior sostenibilità della filiera agroalimentare, il ricettario della tradizione gastronomica Italiana, che è caratterizzato da preparazioni dettate dalla necessità di utilizzare tutti gli alimenti, di non generare scarti, di non sprecare un bene prezioso quale è il cibo. La non sempre facile reperibilità, nella storia Italiana, di cibo ha trasformato l’ansia per la carenza di questo in un potente motore di lavoro e fantasia, con la conseguente valorizzazione di conoscenze e competenze, per rendere commestibile e appetibile qualsiasi prodotto del territorio. La grande tradizione nella conservazione degli alimenti (con la produzione, tra gli altri, di una grande varietà di formaggi e carni conservate di grande pregio) e il grande valore dell’industria conserviera Italiana sono il frutto anche della necessità di ridurre lo spreco alimentare rendendo disponibili gli alimenti in qualsiasi momento dell’anno, indipendentemente dalla stagionalità delle colture.

La cucina Italiana, pur avendo la capacità di rappresentare “l’alta cucina”, come testimoniato dai tanti chef stellati Italiani con la loro inventiva e intraprendenza, è soprattutto una cucina che viene dal basso, dal popolo che, anche nei momenti di difficoltà, ha dimostrato di saper affrontare queste con fantasia e immaginazione. La distinzione tra cucina d’élite e il mangiare del popolo è, d’altro canto, molto meno marcata nella tradizione Italiana con frequenti contaminazioni che testimoniano una qualche trasversalità sociale nella preparazione di cibi.

Tutto il percorso che è stato fatto dall’evoluzione della Filiera Agroalimentare e dalla valorizzazione della Cultura Gastronomica Italiana rappresenta un esempio per il Mondo. Nel momento in cui si teme l’impatto dell’ingresso in un periodo storico denominato Antropocene, si fa riferimento alla Dieta Mediterranea come modello alimentare in grado di contribuire a contrastare questo impatto. Non a caso buona parte delle Linee Guida nazionali per un’alimentazione sana e sostenibile prendono a modello i principi della Dieta Mediterranea declinandoli, correttamente, nelle proprie tradizioni e filiere agroalimentari (Willett W, 2019).

Non ultimo, la filiera agroalimentare e la cucina Italiane rappresentano un determinante motore dello sviluppo economico del Paese, non solo valorizzando conoscenze e competenze dei territori, ma anche esportando prodotti, ricette e, auspicabilmente, cultura. Non a caso, in Europa, è il nostro Paese a detenere il primato per il numero di denominazioni protette (DOC, IGT, DOCG), quale riconoscimento alle tradizioni gastronomiche e al patrimonio agroalimentare Italiano. La Cucina Italiana contribuisce a valorizzare le eccellenze del territorio, dei borghi rurali, dei siti Unesco, dei parchi naturali – archeologici, con la creazione di veri e propri itinerari in cui storia, cultura, tradizioni, filiere agroalimentari e arte culinaria si combinano. Un contributo importante alla valorizzazione della filiera agroalimentare e alla cucina Italiane è stato fornito anche dai tanti emigrati che hanno contribuito a diffondere la cultura e l’identità in ambito gastronomico, oltre che i prodotti, del nostro Paese.

Il sistema agroalimentare ha di fronte sfide importanti che dovranno affrontare le problematiche attuali (sanitarie e ambientali in primis), tener conto di come l’intera filiera del sistema agroalimentare (produzione, trasformazione, conservazione, distribuzione) sta evolvendo, per arrivare ad avere un’alimentazione sana e sostenibile a beneficio dell’essere umano e del pianeta.

Non è la prima volta che il sistema agroalimentare si trova ad affrontare rivoluzioni sostanziali e l’esempio italiano è emblematico (basti pensare, ad esempio, alle invasioni «barbariche» alla fine dell’Impero Romano d’Occidente o alla prima rivoluzione industriale). La stessa Dieta Mediterranea è il frutto delle continue mutazioni dovute agli alimenti e alle culture gastronomiche che, di volta in volta, si sono affacciate sulle sponde delMediterraneo portando cibi dall’Oriente e dalle Americhe, dal Nord Europa e dall’Africa.

Nella tradizione Italiana, si è sempre trovata, in maniera più o meno spontanea, una sintesi tra il «vecchio» e il «nuovo». Anche ora è necessario che, per affrontare le sfide che si profilano, si trovi una sintesi senza rifarsi unicamente a modelli passati (che mantengono la loro validità) e senza affrontare il futuro con atteggiamento o di accettazione passiva o di condanna preconcetta.

Riferimenti bibliografici

  • Capatti A, Montanari M. La cucina Italiana. Storia di una cultura. Ed Laterza, 2005 ISBN 9788858102084
  • Dernini S, Berry EM, Serra-Majem L, La Vecchia C, Capone R, Medina FX, Aranceta-Bartrina J, Belahsen R, Burlingame B,Calabrese G, Corella D, Donini LM, Lairon D, Meybeck A, Pekcan AG, Piscopo S, Yngve A, Trichopoulou A. Med Diet 4.0: the Mediterranean diet with four sustainable benefits. Public Health Nutr. 2017 May;20(7):1322-1330. doi: 10.1017/S1368980016003177
  • Donini LM, Castelli G, Contel M, Esti M, Gazzaniga V, Gerbi V, Giacco R, Giovinazzo G, Macrì A, Manzi G, Menchise C, Poli A,Todisco P. EFFETTI DELL’ASSUNZIONE DI VINO IN MODO RESPONSABILE E IN DOSI MODERATE NELL’AMBITO DI UNO

STILE DI VITA SANO. chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://clusteragrifood.it/wp-content/uploads/2023/12/POSITION-PAPER-CLAN_ASSUNZIONE-VINO-IN-MODO-RESPONSABILE.pdf

  • Serra-Majem L, Tomaino L, Dernini S, Berry EM, Lairon D, Ngo de la Cruz J, Bach-Faig A, Donini LM, Medina FX, Belahsen R, Piscopo S, Capone R, Aranceta-Bartrina J, La Vecchia C, Trichopoulou A. Updating the Mediterranean Diet Pyramid towards Sustainability: Focus on Environmental Concerns. Int J Environ Res Public Health. 2020 Nov 25;17(23):8758. doi:10.3390/ijerph17238758
  • UNESCO, Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO. Dieta Mediterranea. 2010 https://www.unesco.it/it/iniziative-dellunesco/patrimonio-culturale-immateriale/dieta-mediterranea/
  • Willett W, Rockström J, Loken B, Springmann M, Lang T, Vermeulen S, Garnett T, Tilman D, DeClerck F, Wood A, Jonell M, Clark M, Gordon LJ, Fanzo J, Hawkes C, Zurayk R, Rivera JA, De Vries W, Majele Sibanda L, Afshin A, Chaudhary A, Herrero M, Agustina R, Branca F, Lartey A, Fan S, Crona B, Fox E, Bignet V, Troell M, Lindahl T, Singh S, Cornell SE, Srinath Reddy K, Narain S, Nishtar S, Murray CJL. Food in the Anthropocene: the EAT-Lancet Commission on healthy diets from sustainable food systems. Lancet. 2019 Feb 2;393(10170):447-492. doi: 10.1016/S0140-6736(18)31788-4.
Agli Stati Generali del Mercato Food & Beverage Giangiacomo Pierini, Presidente di ASSOBIBE, ribadisce gli effetti deleteri prodotti dalla “Sugar Tax”

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IL CAFFE’: FORSE NON TUTTI SANNO CHE…

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Il caffè, la bevanda nazionale italiana per eccellenza, secondo un’indagine condotta da AstraRicerche risulta essere la bevanda più diffusa in Italia. Tra i 18-65enni ben il 96,6% consuma, almeno saltuariamente, caffè o bevande a base di caffè o che lo contengono; nessuna variazione rispetto alla rilevazione precedente del 2014 che riscontrava il 96,5%.

I comportamenti più diffusi sono bere 2-3 caffè al giorno (38.2%) o 3-4 al dì (38.3%) con una media di poco inferiore ai tre (2,75: il consumo è lo stesso per uomini e donne mentre cresce al crescere dell’età, è più elevato nel Sud e nelle grandi città.

Il caffè continua ad essere consumato prevalentemente a casa propria (90,3% ed era 89,4% nel 2014), ma sono molteplici i luoghi in cui lo si beve. 

Il caffè contiene oltre 900 sostanze, la più studiata delle quali è la caffeina. Sono però presenti anche proteine, lipidi, carboidrati (solubili ed insolubili), minerali, vitamine e soprattutto polifenoli con importanti proprietà antiossidanti. La tostatura cui il caffè è sottoposto può ridurre la presenza o l’attività di molte di queste sostanze. Tra i principali antiossidanti presenti nel caffè si trovano i polifenoli, presenti oltre che nel caffè anche in una grande varietà di alimenti, in particolare nella frutta e nella verdura. I polifenoli sembrano agire non solo come antiossidanti ma anche come attivatori di meccanismi protettivi endogeni dell’organismo.

Tra le azioni attribuibili ai polifenoli del caffè va ricordato l’effetto antinfiammatorio, ritenuto oggi essenziale per la prevenzione cardiometabolica (aterosclerosi, diabete), ma anche nei confronti di patologie degenerative di natura oncologica e neurologica (demenze). Sembra che ai polifenoli del caffè si possa attribuire anche una riduzione della capacità digestiva dei carboidrati complessi, come gli amidi, in di- e mono-saccaridi, che ridurrebbe i picchi glicemici e insulinemici post-prandiali: l’effetto sarebbe mediato dall’inibizione dell’alfa-amilasi, enzima intestinale che digerisce gli amidi di pasta, pane e patate. I polifenoli del caffè influenzerebbero infine la composizione del microbiota intestinale con effetti positivi da un punto di vista prebiotico a favore dello sviluppo di batteri utili all’organismo. 

La sostanza che a tutti viene subito in mente appena si parla di caffè è la caffeina. La caffeina (presente anche nel tè, nel cacao ed aggiunta ad alcune bibite) ha effetti noti sul sistema nervoso centrale, con aumento dello stato di allerta e riduzione della tendenza al sonno; migliora l’efficienza muscolare, induce un transitorio aumento della frequenza cardiaca ed il rilassamento di bronchi e bronchioli. Inoltre, la caffeina sembra avere un ruolo importante nella salvaguardia della memoria come si evidenzia in uno studio pubblicato su Scientific Reports in collaborazione tra l’Istituto di Medicina Molecolare di Lisbona e l’Inserm di Lille (Francia) che dimostra che la caffeina antagonizza specifici recettori adenosinici, gli A2A, iperespressi in presenza di decadimento cognitivo.

Per la presenza di importanti quantità di caffeina i pediatri raccomandano di non dare caffè ai bimbi sotto i 12 anni, nei quali può provocare comportamenti iperattivi, diminuzione dell’appetito, difficoltà ad addormentarsi, palpitazioni, tachicardia ed enuresi notturna. Dopo i 12 anni è permessa una tazzina al giorno, ma non di sera perché potrebbe provocare disturbi del sonno.

Il contenuto di caffeina nella tazza varia in funzione della modalità di preparazione. Ma, come si vede dalla tabella, questa differenza può essere azzerata o addirittura invertita dalla quantità di bevanda ingerita. 

CONTENUTO DI CAFFEINA PER DOSE DI BEVANDA
Espresso o moka40-80mg per tazzina
Caffè americano115-120 mg per tazza
Caffè istantaneo65-100 mg per tazza
Decaffeinato< 5mg per tazzina
Cappuccino70-80 mg per tazza
Cioccolata30-40 mg per barretta da 60gr.
40-50 mg per tazza
Bevande tipo cola35-50 mg per lattina
Bibite energetiche con caffeina o guaranà50-100 mg per lattina

Sebbene nel caffè americano la caffeina sia meno concentrata che nell’espresso, data la maggior quantità di bevanda che si ingerisce, alla fine la quantità assunta è maggiore nel primo. 

Nel caffè decaffeinato gli effetti benefici dei polifenoli rimangono, si perdono però gli effetti stimolanti sul SNC della caffeina.

Da notare che la capacità di metabolizzare la caffeina e regolata geneticamente e inoltre, essendo questa un induttore enzimatico, i suoi effetti siano sono molto differenti tra consumatori occasionali (maggiore frequenza di tremori, insonnia, nervosismo, insonnia) e abituali (dove gli effetti collaterali sono quasi assenti) perché la sua possibilità di essere eliminata dall’organismo aumenta con la frequenza del consumo.

Vediamo quali sono gli effetti del caffè sull’organismo:

1. Caffè e rischio patologie cardio-vascolari

Il caffè esercita un effetto protettivo non lineare rispetto al rischio di malattie cardiovascolari. In dettaglio, il rischio di patologie cardiovascolari è inferiore nei soggetti che consumano 3-5 tazze al giorno, rispetto ai non consumatori; il consumo di 6-10 tazze non aumenta il rischio cardiovascolare, ma oltre le 10 tazze giornaliere questo rischio aumenta.

Attenzione: il caffè fa aumentare la pressione arteriosa. Pertanto, gli ipertesi devono usarlo con parsimonia

2. Caffè e apparato gastro-intestinale

Le xantine contenute nel caffè hanno un effetto irritante sulla mucosa gastrica ed effetti inibitori sullo sfintere inferiore dell’esofago, il che accentua il reflusso gastroesofageo. Tuttavia, in positivo, il caffè esercita un ruolo protettivo sulla permeabilità della barriera intestinale grazie all’azione positiva sul microbiota, soprattutto nel caso di una dieta ricca in grassi. 

3. Caffè e salute del fegato

Contrariamente a quanto si crede, il caffè nero protegge il fegato. Bere due tazze supplementari di caffè al giorno comporta una riduzione del 44% del rischio di sviluppare cirrosi epatica di qualsiasi natura (da virus, alcol, steatosi, ecc.). 

4. Caffè e diabete mellito

L’analisi di numerosi studi sul rapporto tra caffè e diabete pubblicata come review dal titolo “Coffee consumption and reduced risk of developing type 2 diabetes: a systematic review with meta-analysisha evidenziato che il consumo di caffè – sia decaffeinato che con caffeina – riduce il rischio di sviluppare diabete di tipo 2 di circa il 30%. Una relazione di notevole interesse, vista la crescente diffusione mondiale della malattia, associata a numerose complicanze ad alto impatto economico e sociale sia sull’individuo che sul sistema sanitario. In questa pubblicazione sono stati analizzati 30 studi scientifici su una popolazione complessiva di oltre 1,2 milioni di persone per meglio comprendere come il consumo di caffè influisca sullo sviluppo del diabete di tipo 2 e delle complicanze ad esso associate. L’associazione risulta essere dose-dipendente: il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2 diminuirebbe, rispettivamente, del 7% (in caso di caffè con caffeina) e del 6% (in caso di caffè decaffeinato) per tazza al giorno. In particolare, la riduzione del rischio di diabete di tipo 2 di nuova insorgenza sembra essere leggermente maggiore con il caffè non decaffeinato. I meccanismi biochimici della bevanda che intervengono sul rischio di diabete di tipo 2 sembrano essere legati alle sostanze antiossidanti contenute nel caffè in grado di ridurre lo stress ossidativo, associato, oltre che a numerosi effetti avversi sulle funzioni cardiovascolari, metaboliche e renali, anche all’insorgenza di diabete di tipo 2.

5. Caffè, demenze (Alzheimer) e malattie neurodegenerative

Già in passato alcuni lavori avevano dimostrato le proprietà del caffè nel potenziare la memoria a lungo termine (ad esempio una ricerca pubblicata su Nature Neuroscience nel 2014). Più recentemente, i risultati di uno studio pubblicato sulla rivista The Journal of Gerontology, suggeriscono che circa tre caffè (espresso) al giorno (pari a un consumo di circa 261 milligrammi di caffeina) potrebbero proteggere dalla demenza. Rispetto a chi consuma non più di 64 milligrammi di caffeina al giorno (che grosso modo è pari a un espresso – il cui contenuto in caffeina varia da 47 a 75 mg – o a metà di una caffettiera da due tazzine di moka) – coloro che ne consumano 261 milligrammi al giorno presentano un rischio di ammalarsi di demenza o di deficit cognitivo ridotto del 36%.

Un consumo moderato di caffè in età adulta sembra incidere positivamente sulle demenze, tra cui l’Alzheimer. 

6. Caffè, salute mentale e disordini psichiatrici

Il caffè sembra influire positivamente anche su salute mentale e disordini psichiatrici, diminuendo i sintomi depressivi e il rischio di suicidi, in particolare nelle donne. Effetto che sembra attribuibile alla caffeina.

7. Interazione caffeina-farmaci

La caffeina amplifica l’attività di alcuni farmaci per la cura dell’asma (broncodilatatori). In secondo luogo, provocando un aumento della frequenza cardiaca, interagisce negativamente con alcune terapie antipertensive. Può inoltre interagire negativamente con alcuni farmaci per la cura l’insonnia.

Alcuni antibiotici, poi, incrementano il livello di caffeina in circolo nell’organismo. In questi casi sarebbe opportuno ridurre la quantità ingerita nell’arco della giornata.

La caffeina interagisce anche con alcuni farmaci utilizzati in ambito psichiatrico, aumentando il rischio di effetti collaterali.

Infine, il caffè interferisce con l’assorbimento della levotiroxina

8. Il caffè NON serve per dimagrire

Il caffè non serve per dimagrire. Ad alte dosi, può anche portare perdita di peso ma per una condizione patologica di iperattività e ipermetabolismo, e comporta il rischio di gravi effetti collaterali.

9.Il caffè e lo sport. 

Una review pubblicata nel 2019 suggerisce che l’assunzione di caffeine migliora le performance sportive in un’ampia gamma di attività, sebbene quelle a trarne il maggior beneficio sono quelle aerobiche. Gli effetti ergogenici sono evidenti sulla resistenza e forza muscolare, sulla potenza anaerobica e sull’endurance aerobica.   

INTOLLERANZA AL LATTOSIO: LA VERA DIMENSIONE DEL PROBLEMA

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

L’intolleranza al lattosio viene spesso confusa con l’allergia al latte, ma si tratta di due fenomeni molto diversi tra loro. L’allergia è più frequente in età infantile e la sua frequenza diminuisce con l’età, mentre la maggior parte (~il 70%) della popolazione mondiale non esprime, in età adulta, l’enzima (lattasi) necessario per idrolizzare il lattosio, e quindi digerire questo zucchero nei due monosaccaridi che lo compongono, il glucosio e il galattosio, e questa carenza dà origine all’intolleranza al lattosio.

La lattasi non è un enzima costitutivamente espresso in abbondanza nel piccolo intestino dei mammiferi. Il neonato umano, ad esempio, possiede livelli molto bassi di lattasi. Questo fatto non deve sorprendere: le madri non producono infatti latte a partire dal primo giorno. La sua produzione inizia dal secondo giorno (con circa 50 ml), aumentando gradualmente di 50 ml/die in parallelo con l’aumento dell’espressione di lattasi nell’intestino del neonato (durante i primi 2 giorni il fabbisogno energetico del neonato è coperto dall’autofagia del tessuto embrionale non più necessario).

La maldigestione del lattosio da parte degli adulti, dovuta all’assenza di lattasi è quindi molto frequente, e rappresenta la norma tranne che in Nord Europa o in Nord America, dove il fenotipo mutante della persistenza della lattasi in età adulta è al contrario la situazione più diffusa.

Perché si possa parlare di intolleranza al lattosio, tuttavia, debbono essere presenti sintomi specifici associati al consumo di lattosio, conseguenti alla fermentazione batterica del lattosio non digerito che raggiunge il colon. La carenza di lattasi comporta la “maldigestione” del lattosio, che di conseguenza porta al suo “malassorbimento”. Solo quando il malassorbimento del lattosio dà origine a dei sintomi (dolori addominali, gonfiore, diarrea ecc.) allora siamo in presenza di “intolleranza” al lattosio. Il malassorbimento del lattosio può essere diagnosticato facendo ingerire una dose standard (25 gr) di lattosio a digiuno e misurando poi l’idrogeno espirato (breath test): elevati livelli di idrogeno nel respiro sono causati dalla fermentazione batterica del lattosio non digerito. Altri strumenti di diagnostica includono la misurazione dell’attività della lattasi in un campione di biopsia intestinale o test genetici per il polimorfismo comunemente legato alla non-persistenza della lattasi, ma queste ultime metodiche diagnostiche non hanno un grande valore nella pratica clinica. In ogni caso può essere poco indicativo anche il breath test al lattosio se durante l’esame non vengono valutati i sintomi del paziente ma ci si affida esclusivamente alla comparsa del picco di idrogeno espirato come purtroppo invece accade abitualmente. Questo dato indica un malassorbimento e non necessariamente uno stato di intolleranza. Viceversa, molti pazienti riferiscono comparsa di sintomi durante l’esame in assenza di una evidenza di malassorbimento. Questo a dimostrazione del fatto che la semplice associazione tra ingestione del lattosio e comparsa dei sintomi porta troppo spesso all’erronea autodiagnosi. Infatti, spesso i sintomi sono una conseguenza della presenza di una sindrome dell’intestino irritabile o di una allergia alle proteine del latte o di una avversione psicologica agli alimenti contenenti lattosio piuttosto che di una vera intolleranza al lattosio.

Dimostrare un malassorbimento di lattosio non indica pertanto che l’individuo in questione svilupperà necessariamente i sintomi e quindi una intolleranza.

Molte variabili determinano se una persona che assorbe male il lattosio riporterà sintomi: tra queste la dose di lattosio ingerita, l’attività residua della lattasi intestinale, la co-ingestione di cibo con il lattosio, la capacità del microbiota intestinale di fermentare lattosio, e la sensibilità individuale ai prodotti di fermentazione del lattosio.

Molte persone attribuiscono erroneamente i sintomi di diversi disturbi intestinali all’intolleranza al lattosio, senza eseguire un test specifico. Questo equivoco diventa intergenerazionale quando i genitori con intolleranza al lattosio auto-diagnosticata mettono i loro bambini a dieta senza lattosio (anche in assenza di sintomi) nella convinzione che i bambini svilupperanno sintomi se viene loro dato lattosio. Tra le persone con diagnosi certa di intolleranza al lattosio, diversi fattori tra cui l’attività residua della lattasi, la velocità di svuotamento gastrico, la formazione di metaboliti batterici fecali, la capacità di assorbimento attraverso la barriera epiteliale e il tempo di transito intestinale possono modificare anche notevolmente la suscettibilità allo sviluppo di sintomi di intolleranza dopo l’ingestione di alimenti e di bevande contenenti lattosio. 

Gli individui con malassorbimento di lattosio possono tollerare grandi quantità di lattosio se ingerito con i pasti e distribuito durante l’arco di tutta la giornata. Alcuni dati suggeriscono che l’ingestione frequente di lattosio aumenta la quantità di lattosio tollerabile sia dagli adulti sia dagli adolescenti. In ogni caso è importante tenere presente che non trattandosi di una allergia ma di una intolleranza, nei casi realmente diagnosticati si è di fronte a una condizione nella quale i sintomi sono dose-dipendenti e pertanto piccole quantità (come quelle che sono rappresentate dagli eccipienti di compresse e farmaci) non possono mai dare origine alla sintomatologia, mentre invece accade spesso che i pazienti consapevoli di una loro intolleranza sospendono autonomamente una terapia o rifiutano l’assunzione di un determinato farmaco a loro prescritto. Se si considera che la quantità di lattosio utilizzata nel breath test per fare diagnosi di intolleranza è di 25g mentre la quantità di lattosio presente in un bicchiere di latte o in un vasetto di yogurt o in 100g di ricotta non supera i 5g è facile comprendere come spesso i sintomi che compaiono durante l’esecuzione del test, difficilmente si manifestano con l’assunzione abituale dei cibi che contengono il lattosio. Pertanto, molto spesso un paziente con diagnosi di intolleranza al lattosio potrebbe tranquillamente consumare con moderazione alimenti utili alla salute contenenti lattosio dei quali invece si priva sulla base dei risultati del test. Va sottolineato che l’assunzione del lattosio in un soggetto intollerante non causa nessuna patologia o danno al di fuori dei sintomi che la carenza di lattasi è in grado di generare. 

L’uso di latte delattosato e/o di prodotti lattiero caseari a basso tenore di lattosio permette l’assunzione di tutti quei  macro- e micronutrienti in essi contenuti senza incorrere nei disturbi gastrointestinali conseguenti la carenza di lattasi.      

In conclusione, la condizione di intolleranza al lattosio consiste nella presenza di un malassorbimento sintomatico. Spesso viene diagnosticata (o peggio autodiagnosticata) con troppa facilità senza che siano state valutate con attenzione le varie diagnosi differenziali. La carenza dell’enzima non deve automaticamente indurre a eliminare dall’alimentazione latte e derivati in quanto questi alimenti apportano nutrienti molto importanti alla nostra salute. Nei soggetti con diagnosi certa è fondamentale individuare la quantità necessaria a stimolare i sintomi e provare a garantire una alimentazione completa rimanendo al di sotto di tale soglia di lattosio. È importante ricordare che i formaggi stagionati e lo yogurt non contengono lattosio in quantità sufficienti a determinare la comparsa della sintomatologia del paziente e che esistono latti delattosati e anche prodotti a base di lattasi che possono essere utilizzati per non rinunciare al latte e ai formaggi freschi.

CONOSCERE GLI ALIMENTI PER UN CORRETTO ABBINAMENTO A TAVOLA

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Chi vuole essere attento alla propria alimentazione e cerca alimenti salutari e genuini per poter seguire un regime alimentare sano e “preventivo” non si deve mai dimenticare che abbinare in modo corretto gli alimenti rappresenta una condizione importante per non rischiare di vanificare le proprie scelte. Gli abbinamenti alimentari possono condizionare gli effetti sull’assorbimento e sul metabolismo dei nutrienti sia in senso positivo che in senso negativo.

Iniziamo sfatando uno dei miti più radicati nelle credenze popolari, ovvero quello che porta a credere che non si possano associare carboidrati e proteine. Per smentire questo mito basterebbe pensare che gli alimenti che mangiamo più frequentemente e che rappresentano la base della dieta mediterranea, mi riferisco ai cereali, sono naturalmente composti da zuccheri e proteine insieme. Inoltre, nessuno ha mai dimostrato che fare una dieta dissociata, separando i carboidrati dalle proteine possa avere alcun benefico per la salute. Nella pasta il 12-15% dei nutrienti è rappresentato dalle proteine e quindi anche la pasta mangiata da sola non può essere considerata “carboidrati senza proteine”. 

Per rimanere sui cereali possiamo affermare che uno degli abbinamenti più classici e salutari è quello rappresentato dall’unione tra pasta e fagioli oppure tra riso e piselli. Infatti, le proteine vegetali sono in genere carenti di alcuni aminoacidi essenziali, ma abbinando pasta e legumi si mescolano proteine carenti di un aminoacido essenziale come la lisina (scarso nella pasta ma abbondante nei legumi) con altre (quelle dei legumi) che lo contengono ma sono carenti di metionina a sua volta abbondante nelle proteine della pasta.

Un altro esempio positivo riguarda l’abbinamento dell’ananas o della papaia con le carni, in quanto la presenza della bromelina (enzima proteolitico) in quel tipo di frutta può favorire la digestione delle proteine. Sempre in ambito di combinazione virtuosa troviamo quella del limone, dell’arancia o del kiwi con la carne perché la presenza abbondante di vitamina C in questi frutti trasforma il ferro della carne dalla forma ferrica a quella ferrosa, più biodisponibile e quindi aiuta a migliorare l’utilizzo di questo importante minerale necessario per prevenire e curare varie forme di anemia.

Gli abbinamenti positivi non si fermano qui. Cosa c’è di più naturale di condire un pomodoro con l’olio extravergine di oliva? Il pomodoro contiene dei carotenoidi e in particolare il licopene con eccezionali proprietà antiossidanti. L’olio, da parte sua è il miglior grasso da condimento perché ha una composizione in acidi grassi che aiuta a ridurre il colesterolo cattivo e ad aumentare quello buono oltre a contenere un altro antiossidante straordinario che è la vitamina E. Messi insieme, olio e pomodoro potenziano il loro effetto; infatti, il licopene è liposolubile e quindi il suo assorbimento aumenta notevolmente in presenza di grassi come l’olio. In modo analogo, il pesce, soprattutto quello azzurro essendo ricco in omega 3, grassi molto utili e salutari, può essere un alimento che facilita l’assorbimento di alcune vitamine liposolubili come la A, la D, la E, e la K e di conseguenza le migliori associazioni potrebbero essere quelle che lo vedono abbinato con pomodoro, carote, rosso d’uovo e formaggi.

Ricordiamo anche che non c’è nessun motivo per non associare proteine vegetali con proteine animali ma anzi, per le loro differenti composizioni in aminoacidi, il nostro organismo necessita di entrambe in una proporzione equivalente, e quindi possiamo tranquillamente mangiare un panino con il formaggio oppure, una bistecca con i piselli senza alcun timore.

Ci sono invece alcuni abbinamenti che sono controproducenti. Ci sono infatti alcuni alimenti come i legumi (in particolare i fagioli ma anche la soia) che contengono molti fitati, sostanze che si legano ad alcuni minerali come, per esempio, il calcio e il ferro impedendone il loro assorbimento. Quindi attenzione all’abbinamento dei legumi con i formaggi o latticini soprattutto per chi soffre di osteoporosi o anemia perché è in grado di ridurre l’assorbimento di questi nutrienti. Quindi chi cerca i benefici del calcio mangiando formaggi, o del ferro, consumando la carne dovrebbe avere l’accortezza di non mangiare questi alimenti insieme ai legumi. 

Un discorso analogo riguarda alcune verdure come spinaci, bietola, pomodoro e sedano (oltre che di nuovo i legumi). Questi ortaggi contengono molti ossalati  che in modo simile ai fitati si legano con facilità a sali minerali come calcio, zinco e selenio interferendo in modo consistente nella loro biodisponibilità e quindi nella possibilità di utilizzo da parte dell’organismo.

Esistono, inoltre, alcune condizioni patologiche dove fare attenzione agli abbinamenti diventa molto importante per ridurre l’impatto negativo dell’alimentazione sui sintomi. Per esempio, per chi soffre di sindrome dell’intestino irritabile gli abbinamenti da evitare sono la birra con la pizza (perché si sommano gli effetti di una probabile difficoltà alla digestione degli amidi con il gas della birra) oppure le patate con i legumi. Sia le patate che i legumi contengono amidi e zuccheri difficilmente digeribili oltre a sostanze come le lectine e agglutinine che rendono difficoltoso l’assorbimento delle proteine. Infine, la presenza di inibitori delle proteasi nei legumi può ostacolare il lavoro degli enzimi digestivi e quindi consumarli insieme ad alimenti ricchi di proteine potrebbe facilmente creare problemi a chi soffre di sindrome dell’intestino irritabile.  

Chi soffre di emicrania dovrebbe evitare di abbinare vino e formaggio perché entrambi possono scatenare una crisi di cefalea, mentre per chi soffre di gonfiore addominale questo abbinamento può favorire la produzione di gas intestinale soprattutto se questi alimenti vengono consumati in un pasto ricco di brassicacee (cavoli, broccoli e cavolfiore). 

Chi è affetto da malattia da reflusso gastroesofageo dovrebbe rinunciare a combinare cioccolato, menta e liquirizia per ridurre il rischio dei classici disturbi di acidità e bruciore. Anche mescolare bevande gassate e agrumi può dare origine ai sintomi.

Anche il sonno può essere influenzato da certi abbinamenti alimentari, alcuni in positivo e altri in negativo. Per esempio, combinare alimenti come vino, formaggio e cioccolato può essere controproducente per chi soffre di insonnia perché contengono tiramina, aminoacido precursore dell’adrenalina che ostacola le varie fasi del sonno.

Al contrario, il latte nell’intestino di alcuni individui può dare origine alla comparsa delle casomorfine, sostanze che possono conciliare il sonno soprattutto se abbinate agli zuccheri o ad alimenti che contengono triptofano (precursore della serotonina) come le uova, le nocciole, le arachidi, i legumi o il pesce, o ad altri che contengono melatonina come funghi, semi di girasole e avena.

E alla fine arriva la frutta. Ma è vero che mangiata a fine pasto fa male alla salute? Sebbene non ci sia nessun fondamento scientifico per sconsigliare la frutta a fine pasto ci sono due situazioni nelle quali è meglio evitarla. 1) in una dieta dimagrante, perché togliendola dopo il pasto costa meno fatica avendo meno fame, e spostandola a metà mattina e a metà pomeriggio si aggiungono due spuntini quando se ne sente di più il bisogno senza aumentare l’apporto calorico. 2) in corso di “post prandial distress” condizione patologica nella quale è presente un rallentato svuotamento gastrico che si traduce in difficoltà a digerire e pesantezza di stomaco dopo mangiato.

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