Federalimentare
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CORRETTE PORZIONI E FREQUENZE DI CONSUMO

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Quando si parla di alimentazione ci si ferma abitualmente al concetto legato al tutto o niente. Ovvero un alimento “fa bene” o “fa male” in base a stereotipi generici o appartenenti all’immaginario collettivo e raramente ci si addentra nella complessità dell’argomento. Non esistono in realtà alimenti “buoni” o “cattivi” ma esiste il concetto di proporzionalità come suggerito egregiamente dalla grafica della piramide della dieta mediterranea (figura 1) dove appare chiaro che non esiste una discriminazione in termini di scelte di alimenti ma quello che deve guidare le logiche di una sana alimentazione sono ispirate alla proporzionalità e alla frequenza di consumo di alcuni cibi rispetto ad altri.

Sia i LARN (livelli di assunzione di riferimento) (1) che le Linee Guida italiane per una sana alimentazione (2) hanno chiarito dettagliatamente come le porzioni e le frequenze di consumo rappresentino l’obiettivo principale di insegnamento in una corretta campagna di educazione alimentare. I LARN definiscono porzione standard la quantità di alimento che si assume come unità di riferimento riconosciuta e identificabile sia dagli operatori del settore nutrizionale e sia dalla popolazione. La porzione standard deve essere coerente con la tradizione alimentare e di dimensioni ragionevoli, in accordo con le aspettative del consumatore. È una unità di misura di riferimento della quantità di alimento consumata e può essere espressa in unità naturali o commerciali effettivamente visualizzabili (ad es. frutto medio, fetta di pane, fetta di prosciutto, lattina, scatoletta ecc.) oppure in unità di misura casalinghe di uso comune (ad es. cucchiaio, mestolo, bicchiere, tazza ecc.). La porzione rimane comunque un concetto approssimativo e puramente indicativo sebbene molto importante. Una singola porzione può variare in funzione dell’esigenza calorica dell’individuo, della sua età, del suo sesso, della sua attività fisica, della soddisfazione personale, della sua sfera psicologica e della sua capacità organizzativa giornaliera. Pertanto, appare sbagliato considerare la porzione come un dogma insormontabile. Piuttosto, diventa opportuno considerare che un regime alimentare venga suggerito partendo da questo concetto di porzione per poi adattarsi alle singole esigenze individuali in modo da personalizzare il modello alimentare. Analogamente a questo concetto si esprime quello delle frequenze di consumo. Questo significa che una volta definita la porzione, diventa importante stabilire quante volte questa porzione può essere consumata in un giorno, o in una settimana, dal consumatore. A questo proposito, le linee guida per una sana alimentazione (2) hanno indicato le frequenze di consumo in base all’ammontare di differenti quote di calorie totali giornaliere assunte dal consumatore, cercando in questo modo di modulare e personalizzare l’assunzione degli alimenti in modo più congeniale alle reali necessità, sebbene, come abbiamo detto, l’apporto complessivo giornaliero rappresenta soltanto uno dei parametri da considerare in un’ottica di personalizzazione.

Ecco, quindi, che la scelta degli alimenti da utilizzare in una corretta dieta alimentare non deve tenere conto soltanto della composizione in macronutrienti (carboidrati, lipidi, proteine, fibre e acqua) o molecole bioattive (polifenoli, antiossidanti, fitosteroli, fitoestrogeni) o dell’apporto calorico perché, alla luce delle attuali conoscenze, sarebbe fortemente riduttivo se non andiamo oltre prendendo anche in considerazione il concetto di “quanto” e “quando” assumere gli stessi alimenti. 

Sappiamo che la dieta mediterranea non esalta un singolo alimento rispetto ad un altro, ma che al contrario valuta nel loro insieme la combinazione di vari alimenti e li associa ad un regolare svolgimento dell’attività fisica. Gli alimenti base della dieta mediterranea come sappiamo sono: frutta e verdura (apportano vitamine, sali minerali, polifenoli, antociani, acqua, fibra), cereali (carboidrati complessi e proteine), pesce (proteine di elevato valore biologico, omega 3, sali minerali), legumi (proteine di medio valore biologico, fibra, carboidrati complessi), olio (acidi grassi MUFA e PUFA, vitamine, polifenoli, molecole bioattive). Diciamo che questi sono gli alimenti base proprio perché sono quelli che devono essere consumati in maggior quantità (porzioni) e con maggior frequenza. Il concetto di porzione e frequenza permette peraltro di non escludere dalla dieta mediterranea anche gli altri alimenti, i cui consumi devono essere definiti anch’essi da porzioni e frequenze e mai esclusi. Ci riferiamo per esempio alle carni, ai prodotti dolciari e ai condimenti. Questo è molto importante perché l’aspetto edonistico, sociale, psicologico e conviviale del cibo rappresenta una dei cardini moderni della dieta mediterranea. I nutrienti apportati da questi altri alimenti sono altrettanto importanti per la salute (zuccheri, grassi, sali minerali ecc.) e il loro apporto in una corretta alimentazione è altrettanto valido ed opportuno se si rispettano anche per loro i concetti di porzione e frequenza. La proibizione immotivata non è salutare ma soprattutto non è necessaria. Anche la restrizione eccessiva può essere controproducente. Un recente report della commissione EAT Lancet suggerisce un progetto di dieta universale prendendo come riferimento la dieta mediterranea cercando di darle una veste di universalità per adattarla a tutti i paesi del mondo e genericamente a tutti gli individui andando in direzione opposta ai concetti di personalizzazione appena espressi.

Il problema di questo report sulla dieta universale è che dopo una banale e scontata dichiarazione di intenti e propositi, coraggiosamente suggerisce in modo particolareggiato le grammature dei singoli alimenti da ingerire da parte di ogni individuo. E qui non può che alzarsi una montagna di perplessità. Per fare qualche esempio. Si consiglia un consumo di 14 g al giorno di prodotti derivati dalla carne. Questo corrisponde a una piccola fettina di carne o una mezza bistecca a settimana. Il pesce, circa 200 g a settimana (una porzione), il pollo idem (una porzione a settimana) e le uova 2 a settimana (piccole però). Da sottolineare che non si tiene conto (e non sarebbe possibile farlo) delle enormi diversità tra giovani e anziani, sportivi e non, ecc.

Questa estremizzazione va probabilmente molto aldilà delle raccomandazioni della dieta mediterranea (che consiglia 1 o 2 porzioni, e non mezza, di carne rossa a settimana, più di due porzioni di pesce e di pollo e fino a 4 uova). Non ci sono evidenze che ridurre drasticamente questi alimenti sotto queste quantità porti dei vantaggi in termini di salute. Riducendo così tanto i prodotti di origine animale la commissione EAT si vede peraltro costretta, per garantire il fabbisogno proteico, ad aumentare in modo alquanto bizzarro le porzioni di cereali (232 g, ovvero 3 piatti di pasta al giorno) o di legumi (3 porzioni di 200 g a settimana, difficilmente tollerabili da chi soffre di colon irritabile o di gonfiore addominale) e di noci/mandorle (50 g al giorno per ben 300 calorie!) suggerendo un apporto calorico giornaliero di ben 2500 calorie! Diventa complicato combattere la piaga dell’obesità e promuovere la cultura dell’educazione alla riduzione dell’apporto calorico globale. Basterebbe essere meno ideologici e un po’ più pratici, e pensare che per avere 5 gr di proteine le noci apportano 300 calorie, mentre una porzione da 150 gr di merluzzo apporta ben 25 g di proteine con solo 100 calorie.  

In conclusione, possiamo affermare che una sana alimentazione si ispira alla varietà e alla diversità (2) e che la gamma di alimenti che offre la dieta mediterranea, il miglior modello scientificamente validato, consente di non escludere alcun alimento. Quello che invece deve essere tenuto in debito conto è il concetto di porzione e di frequenza di consumo, un criterio che deve essere basato, però, sull’idea di personalizzazione e non determinato da schemi ideologici. 

  Figura 1.           PIRAMIDE DELLA DIETA MEDITERRANEA

RIFERIMENTI

  1. https://sinu.it/wp-content/uploads/2019/07/20141111_LARN_Porzioni.pdf
  2. https://www.crea.gov.it/documents/59764/0/LINEE-GUIDA+DEFINITIVO.pdf/28670db4-154c-0ecc-d187-1ee9db3b1c65?t=1576850671654
MANIPOLAZIONE DEGLI ALIMENTI E METODI DI COTTURA

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Quando analizziamo i benefici di una sana alimentazione e degli alimenti che la compongono prendiamo sempre in considerazione la composizione naturale degli stessi e gli effetti, benefici o nocivi che siano, che questi esercitano sullo stato di salute. Nella pratica quotidiana però, sia nella filiera produttiva che nella preparazione domestica dei piatti in cucina, gli alimenti possono subire modifiche anche consistenti del loro stato presente in natura. La trasformazione industriale degli alimenti deve soddisfare imprescindibili requisiti di sicurezza, conservazione, praticità, trasporto, distribuzione e palatabilità del prodotto affinchè il consumatore finale possa beneficiarne. Si tende sempre ad associare la manipolazione industriale degli alimenti a qualcosa di dannoso e negativo che può comportare esclusivamente perdita dei principi nutritivi e rischi per la salute. Ma è davvero così? Il livello di manipolazione di un alimento può essere valutato sulla base di classificazioni che misurano il grado di intervento nei processi di produzione del prodotto finale. La più nota è la classificazione NOVA (1).  Questa classificazione prevede quattro livelli di processazione:

  1. Cibi non trasformati o minimamente lavorati. Vi rientrano acqua, parti commestibili di piante (semi, frutti, foglie, steli, radici), funghi e alghe. Ma anche i prodotti di origine animale più semplici, come uova, latte, carni non lavorate.
  2. Ingredienti per la cucina domestica. Sono gli alimenti basilari per la preparazione e il condimento dei cibi. Oli e grassi, aceto e sale, zucchero, erbe aromatiche e spezie, etc. difficilmente si usano in assenza di alimenti del gruppo 1.
  3. Alimenti trasformati (processed food). Fanno parte di questo gruppo alimenti ottenuti con lavorazioni semplici. Pane, pasta, formaggi, carni e pesci nelle lavorazioni più semplici, conserve vegetali, verdure in lattina. Si trovano preparazioni con massimo 2 o 3 ingredienti.
  4. Alimenti ultraprocessati. Si tratta di preparati realizzati con più di 4 elementi e possono includere anche composti presenti negli alimenti minimamente trasformati come sale, grassi, oli, antiossidanti, conservanti, coloranti, dolcificanti e altri additivi per esaltare il sapore. Lo scopo di questi prodotti è quello di fornire piatti o bevande pronti per il consumo o semplici da riscaldare. Abitualmente sono oggetto di campagne di marketing e pubblicità. Esempi sono gli snack, barrette alimentari, piatti pronti, pizza o dolci precucinati, gelati preconfezionati, zuppe istantanee.

Sebbene esistano studi che sembrano mettere in correlazione gli alimenti del gruppo 4 (ultraprocessati) con una maggior rischio di patologie, siccome i processi di produzione di un alimento ultraprocessato sono così vari risulta impossibile e poco scientifico attribuire un’etichetta di non salubrità a tutti questi prodotti appartenenti a questa categoria al momento attuale. L’aggiunta di un additivo o la preparazione a monte di un alimento non necessariamente può essere collegata ad un rischio per la salute se non si tiene conto della qualità dell’alimento di partenza e del reale processo produttivo preso singolarmente. Per esempio, un trattamento ad alta temperatura può ridurre la presenza di qualche nutriente ma non necessariamente rende il prodotto pericoloso per la salute. Lo stesso si può dire per l’aggiunta di un conservante o per l’abbinamento di più alimenti nella preparazione di un piatto pronto. Vale poi sempre il discorso delle quantità, perché esistono alimenti che pur contenendo “naturalmente” sostanze pericolose il loro consumo abitualmente parsimonioso li rende estremamente sicuri. Un esempio è il basilico che, pur rientrando secondo la classificazione NOVA in classe 1 (naturale e pertanto considerato “sicuro”) contiene il metil eugenolo, sostanza possibilmente cancerogena secondo la classificazione IARC.

Anche i metodi di cottura influenzano i profili nutrizionali degli alimenti. Cucinare il cibo può presentare vantaggi (favorisce la sicurezza microbiologica, migliora la biodisponibilità di alcuni nutrienti come il licopene del pomodoro e la vitamina B dell’uovo, consente la digeribilità di amidi e proteine ecc.) o svantaggi (porta alla perdita di nutrienti e di vitamine termolabili e alla formazione di prodotti tossici in caso di alte temperature).

Quando prendiamo in esame un alimento valutiamo i nutrienti che abitualmente sono presenti al momento della raccolta in condizioni di piena stagionalità, della pesca o della macellazione, ma la cottura del prodotto modifica sostanzialmente la sua composizione o la disponibilità delle sostanze che contiene. Prendiamo per esempio la frittura. Anche quando rispetta i migliori criteri in termini di olio, durata, forma della padella e tempi di cottura, a causa delle alte temperature che si sviluppano in presenza dei grassi (presenti nell’olio o nel burro utilizzati o nell’alimento stesso) si verifica una reazione di perossidazione, con conseguente formazione di radicali liberi. Ecco che un pesce, ricco di omega 3 dagli effetti positivi, può trasformarsi in fonte di radicali liberi con la loro cattiva abitudine di “invecchiare” le cellule. Inoltre, se durante la frittura si raggiunge o supera il punto di fumo dell’olio o del burro si formano alcune sostanze come la acroleina, molto tossica per il fegato oltre che cancerogena. È dunque importante conoscere questa temperatura che è specifica per ogni tipo di olio o di burro, e come si può immaginare è più sicura quanto più alta essa sia perché più difficile da raggiungere. La frittura peraltro penalizza quasi tutte le verdure riducendo in modo rilevante il loro potere antiossidante, tranne cicoria, cavoletti di bruxelles, patate e carciofi (2).

Anche la cottura alla griglia della carne, a causa delle alte temperature, può favorire la denaturazione delle proteine e degli aminoacidi (rendendoli inutilizzabili), la formazione degli idrocarburi policiclici e la perossidazione dei grassi.

Gli zuccheri, con le temperature elevate, possono dare origine a sostanze  potenzialmente tossiche (come si verifica nella reazione di Maillard che dà origine alla crosta del pane e al suo profumo). Inoltre, alcune vitamine come la C e l’acido folico sono molto termolabili e con le cotture prolungate ad alta temperatura tendono a scomparire. Anche la maggior parte dei polifenoli sparisce con la cottura.

La cottura, d’altro canto, è indispensabile alla salute fondamentalmente perchè abbatte drasticamente il rischio di contaminazione degli alimenti da parte di batteri e funghi (basti pensare all’importanza della pastorizzazione, che consente il consumo del latte senza rischi di tubercolosi, brucellosi e altre infezioni).

Inoltre, la cottura permette la digestione da parte dei succhi gastrici di alimenti come la carne, il pesce, la pasta o il pane altrimenti inutilizzabili o potenzialmente pericolosi. Alcuni nutrienti, contrariamente a quanto si tenderebbe a credere, sono più facilmente utilizzabili dall’organismo dopo la cottura. Un esempio classico è rappresentato dalla vitamina B12 delle uova, che vede la propria biodisponibilità aumentare con la cottura grazie all’azione di quest’ultima nel favorire la scissione della vitamina dalla avidina, sostanza alla quale è legata.

Anche la biodisponibilità dei carotenoidi delle carote aumenta con la cottura perché questi si liberano della matrice che li lega. I carciofi grazie alle temperature della cottura aumentano di biodisponibilità di un carotenoide particolare, la luteina. 

La bollitura è il metodo che ne offre la maggiore disponibilità (quasi 10 volte di più) ma anche la frittura rende i carotenoidi dei carciofi più fruibili (4 volte di più). Per i broccoli invece la cottura non offre alcun vantaggio, anzi determina una perdita importante della vitamina C presente in abbondanza nel prodotto fresco.

Le antocianine e i flavonoidi in genere si perdono con la cottura. Il riso rosso può arrivare a perderne l’80% con la cottura a pressione.

Come possiamo vedere non esiste un metodo ottimale di cottura. La cottura degli alimenti in termini generali è molto utile per la salubrità e la digeribilità dell’alimento e dovrebbe riguardare prevalentemente i prodotti di origine animale. In questo caso cerchiamo di privilegiare le cotture a bassa temperatura e di breve durata. I prodotti vegetali invece tendono a dare il meglio per la nostra salute se consumati crudi anche se abbiamo visto non essere una regola.

Bibliografia

  1. Monteiro CA, Cannon G, Levy RB et al. NOVA. The star shines bright.
    Food classification. Public health] World Nutrition January-March 2016, 7, 1-3, 28-38 World Nutrition Volume 7, Number 1-3, January-March 2016 
  2. Pellegrini N, Miglio C, Del Rio D, Salvatore S, Serafini M, Brighenti F. Effect of domestic cooking methods on the total antioxidant capacity of vegetables. Int J Food Sci Nutr. 2009;60 Suppl 2:12-22. doi: 10.1080/09637480802175212. 
BUONE PRATICHE PER EVITARE GLI SPRECHI ALIMENTARI 

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Cosa intendiamo quando parliamo di sprechi alimentari? Per il Ministero della Salute, si definisce spreco alimentare “l’insieme dei prodotti scartati dalla catena agroalimentare, che per ragioni economiche, estetiche o per la prossimità della scadenza di consumo, seppure ancora commestibili e quindi potenzialmente destinati al consumo umano, sono destinati ad essere eliminati o smaltiti” Il Waste Watcher, International Observatory on Food & Sustainability nel suo action program (WRAP), includendo anche porzioni di cibo non commestibili (come risulta anche nella direttiva 2018/851 dell’Ue), distingue il food waste in:

  • evitabile (cibo e bevande finiti in spazzatura ma ancora edibili, come pezzi di pane, mele, carne, ecc.)
  • possibilmente evitabile (cibo e bevande che alcune persone consumano, per esempio le croste del pane, e altre persone no; ma anche il cibo che può essere consumato se cucinato, per esempio la buccia di patate)
  • inevitabile (ossi di carne, bucce d’uovo, d’ananas ecc.).

I numeri dello spreco in Italia sono impressionanti. Secondo una indagine pubblicata sul Corriere della Sera nel 2023 ogni anno in Italia vengono sprecati 8.65 milioni di tonnellate di cibo (1) con il 73% che si verifica in casa pari ad una perdita di 385 euro per ogni cittadino. 

Oggi circa un terzo del cibo prodotto in tutto il mondo viene sprecato. Si tratta di oltre 1,6 miliardi di tonnellate, a fronte delle 5,3 disponibili. Si stima che, salvando appena un quarto del cibo che diventa rifiuto alimentare, si potrebbe riuscire a nutrire a sufficienza coloro che soffrono la fame: 828 milioni di persone (+5,6% rispetto al 2020 e +22,1% rispetto al 2019).

Vediamo quali sono le principali cause dello spreco alimentare.

  1. Insufficiente pianificazione della spesa alimentare
  2. Attività promozionali commerciali (per esempio paga uno e prendi due)
  3. Confusione tra data di scadenza e termine minimo di conservazione (da consumarsi preferibilmente entro…)
  4. Scarsa dimestichezza nella preparazione dei cibi
  5. Scarsa praticità delle confezioni (difficilmente svuotabili o troppo grandi)
  6. Giudizio sbagliato dell’aspetto estetico dell’alimento
  7. Porzioni standard e poco adatte a tutti i consumatori
  8. Scarsa capacità di prevedere il numero dei consumatori (soprattutto nella ristorazione collettiva) in particolare per prodotti stagionali
  9. Difetti di packaging
  10. Inadeguata conservazione (soprattutto a livello domestico) o trasporto (mancato rispetto della catena del freddo)
  11. Mancata consapevolezza del rischio e dei costi dello spreco alimentare e del valore del cibo
  12. Vita frenetica e scarsa programmazione alimentare domestica

Come si può osservare oltre ad alcune cause legate al packaging o a previsioni di consumo su larga scala, la maggior parte delle cause dello spreco alimentare avviene in ambito domestico e appare evidente come una corretta campagna di educazione e consapevolezza potrebbe avere un impatto enorme sulla riduzione degli sprechi alimentari. A livello collettivo il Ministero della salute nel 2016, in condivisione con le Regioni e province autonome, ha elaborato delle linee guida per limitare gli sprechi nelle mense scolastiche e aziendali (2). Tutti gli attori devono svolgere il loro ruolo nel tentativo di ridurre lo spreco alimentare, dai produttori a chi processa gli alimenti, ai consumatori e alle autorità regolatorie e di sorveglianza.  Il Ministero della Salute ha stilato un elenco di consigli volti a ridurre lo spreco (3) che partono dalla pianificazione dei pasti prima di fare la spesa così da andare al supermercato con un programma studiato, in modo da limitare le improvvisazioni che possono più facilmente condizionare gli acquisti in base all’appetito, alle offerte, alle presentazioni pubblicitarie accattivanti e alle modalità di presentazione sugli scaffali. È fondamentale, al momento dell’acquisto, leggere le etichette per valutare la previsione dei consumi in funzione delle scadenze dei prodotti. Arrivati a casa, una regola da seguire con molto rigore è quella di disporre correttamente in frigorifero o nella dispensa gli alimenti appena acquistati seguendo una certa razionalità. Questo significa non solo collocare gli alimenti nei ripiani e nei comparti dedicati per garantire una corretta conservazione in base alle differenti temperature, ma cercando di mettere davanti, in prima vista, gli alimenti più vicini alla data di scadenza e gli altri, appena acquistati, dietro. Il consumatore deve prestare molta attenzione alla differenza tra “data di scadenza” che indica il limite oltre il quale il prodotto non deve essere consumato, e “termine minimo di conservazione” che indica che il prodotto, oltre la data riportata, può subire modifiche di alcune caratteristiche organolettiche come il sapore e l’odore ma può essere consumato senza rischi per la salute. Deve inoltre adottare l’accortezza, nel caso di utilizzo di confezioni non richiudibili, di riporre gli alimenti avanzati in contenitori ermetici per mantenere la freschezza e le proprietà organolettiche più a lungo possibile, garantendo inoltre un certo isolamento così da evitare di trasferire o ricevere odori da altri alimenti conservati in prossimità. La frutta e la verdura vanno tenute in bella vista e quando cominciano a mostrare segni di “invecchiamento” possono essere usate per preparare frullati, minestroni, zuppe o torte (dolci o salate). Infine, è importante che il consumatore usi tutta la sua fantasia per preparare ricette che possano sfruttare al massimo gli alimenti conservati prima che perdano la loro fragranza e soprattutto tenendo conto delle porzioni che intende preparare analizzando se tra i commensali ci siano bambini, anziani o persone inappetenti o a dieta per qualunque motivo (di salute o per dimagrire). A volte anche solo osservare i rifiuti prodotti in casa può sensibilizzare il consumatore e renderlo più consapevole dei suoi sprechi alimentari.

Referenze

  1.   Sprechi alimentari, a ogni italiano costano 385 euro all’anno
  2.   Linee di indirizzo rivolte agli enti gestori di mense scolastiche, aziendali, ospedaliere,  sociali  e  di comunità, al fine di prevenire e ridurre  lo  spreco  connesso  alla somministrazione  degli  alimenti
  3.   Regole utili
Modello italiano di cucina come ambasciatore del made in italy

Prof. Luca Piretta
Gastroenterologo e Nutrizionista
Università Campus Biomedico di Roma

Ogni paese si contraddistingue per alcune peculiarità culturali, produttive, territoriali, storiche, paesaggistiche o spirituali che gli permettono di essere riconoscibile e identificabile nel mondo ed essere, per una o più di queste caratteristiche, visitato o conosciuto da altre popolazioni. Tutti queste peculiarità rappresentano un biglietto da visita importante, e possono costituire una importante risorsa economica di ritorno per il paese stesso. L’Italia, forse più di qualunque altro paese, è portatrice di tesori culturali, storici e paesaggistici che sono identificativi della ricchezza di un patrimonio complessivo unico nel mondo. Un aspetto però non è mai stato troppo sottolineato come biglietto da visita del nostro paese ed è quello rappresentato dalla cucina italiana. Capita spesso che all’estero l’Italia venga identificata da un punto di vista gastronomico soltanto con la pasta e la pizza, mentre invece la ricchezza della cucina italiana va ben oltre. L’Italia è un Paese che storicamente racchiude centinaia di culture diverse, da nord a sud, costituite ancora oggi da tradizioni e piatti che si identificano con la storia di ogni singolo comune e che raccontano da soli la storia delle popolazioni che li abitano. Sarebbe troppo lungo e complicato segnalare ogni singolo piatto presente nella tradizione delle città e dei paesini italiani che a volte sono vanto e motivo di serrata rivalità anche solo nel come possono essere chiamati (basta pensare alla denominazione “rivale” tra arancino (Catania) e arancina (Palermo) motivo di diatribe decennali senza soluzione, oppure al senso di percepita offesa per un ligure che sente chiamare “pizza bianca” la focaccia). Mi limito a sottolineare quali sono i punti di forza complessivi della cucina italiana, ispirata alla Dieta Mediterranea da sempre (ricordo che Ancel Keys, padre della Dieta Mediterranea fece i suoi studi sui benefici della Dieta Mediterranea proprio a Pioppi, nel Cilento) e che dovrebbe essere considerata una vera e propria ambasciatrice del made in Italy nel mondo.

  1. La qualità della materia prima. L’Italia è indubbiamente un Paese fortunato da questo punto di vista. Il territorio distribuito tra mari e montagne ed esposto ad un clima mite costituisce il vero segreto delle enormi potenzialità della cucina italiana. L’eccellenza dei gusti, dei profumi e dei sapori della materia prima rende ogni piatto stimolante e piacevole al consumo. Ecco perché, a differenza della cucina francese, anch’essa molto ricca, quella italiana è tendenzialmente povera di salse e condimenti e lascia spazio alla capacità “espressiva” del prodotto naturale per non vanificarne le sue proprietà organolettiche naturali con l’aggiunta di ingredienti superflui.
  2. I principi nutritivi degli alimenti. I piatti della tradizione italiana sono correlati al territorio dal quale traggono gli alimenti che li compongono. Gli alimenti del territorio offrono quei principi nutritivi che poi introduciamo mangiando e che sono la base dello stato di salute. Questo riguarda non solo le verdure e la frutta che apportano antiossidanti, vitamine, sali minerali, e molecole bioattive insostituibili, ma anche i formaggi e carni conservate frutto di conoscenze e metodologie tradizionali che nella giusta misura forniscono completezza alla alimentazione
  3. Il “know-how” dei produttori. Non basta la materia prima di qualità per fare una cucina di qualità. È infatti fondamentale la conoscenza, la tradizione, il rispetto di alcune regole tramandate nella cultura del territorio, la capacità di ottenere ottimi risultati mischiando pochi ingredienti e accettare i tempi che richiedono alcuni alimenti per ottenere il massimo del loro sapore e della loro salubrità (per esempio la stagionatura dei formaggi, o la conservazione del pesce o delle carni). È importante ricordare che l’Italia è il Paese con il maggior numero di prodotti agroalimentari DOP e IGP.
  4. L’inventiva e il rispetto degli alimenti da parte di chef e cuochi. Uno dei segreti del sapore e della salubrità della cucina italiana è quello di riconoscere e accettare ciò che un alimento può dare senza necessariamente “rinforzarlo” con sapori estranei o condimenti aggiuntivi esagerati che, nella preparazione del piatto, andrebbero a modificare eccessivamente le qualità nutrizionali od organolettiche degli alimenti che fanno parte della ricetta del piatto.
  5. I metodi di cottura. I piatti tipici della cucina italiana non prevedono abitualmente (le eccezioni esistono ovviamente) metodi di cottura particolarmente complicati che mettono a repentaglio la qualità nutrizionale degli alimenti. Le alte temperature e le cotture prolungate possono minare i contenuti dei principi nutritivi presenti negli alimenti, ma la cucina italiana non è amante delle fritture e delle grigliate, per quanto siano presenti in molti piatti regionali, mentre tende a far risaltare i sapori e i profumi degli alimenti con metodologie collaudate dalle tradizioni.
  6. Gli abbinamenti. Questo è un aspetto molto importante. I piatti della tradizione culinaria italiana più o meno consapevolmente riuniscono nella stessa ricetta alimenti che potenziano i loro benefici oltre ai loro sapori. Basta pensare alle innumerevoli ricette di pasta che prevedono l’abbinamento di olio di oliva, pomodoro cotto e parmigiano. L’olio extravergine di oliva, ricchissimo di polifenoli, vitamine A ed E, antiossidanti, acidi grassi monoinsaturi rappresenta un veicolo ideale per sostanze come i carotenoidi, il licopene ed alcune vitamine liposolubili presenti nel sugo di pomodoro e nel parmigiano, favorendone l’assorbimento e l’utilizzo.
  7. Frugalità. Questa caratteristica della cucina italiana, identificativa della tradizione, si è andata perdendo negli anni lasciando spazio all’abbondanza e agli eccessi, soprattutto dagli anni 60 in poi. Sarebbe importante recuperare il valore della frugalità ed associarla ad una maggiore attività fisica per rendere la cucina italiana un veicolo fondamentale di salute.
  8. Convivialità. La condivisione del cibo è sempre stato un aspetto che ha contraddistinto la tradizione della cucina italiana. La cultura gastronomica italiana si è sempre avvalsa della tavola come punto di incontro e momento di condivisione non solo all’interno di una famiglia, ma anche come spunto di aggregazione sociale tra colleghi di lavoro, o come pausa di riposo e recupero da una qualunque attività, oppure come occasione di gratificazione collettiva o di ritualità (feste e ricorrenze). Oggi più che mai questo valore che ritroviamo nei piatti della cucina italiana andrebbe messo in risalto. Non solo rappresenta un viatico di educazione a condividere quanto di più prezioso ed essenziale esista per la vita dell’uomo (il cibo) ma il mangiare insieme a tavola insegna, soprattutto ai più piccoli, a sperimentare nuovi sapori assaggiando un piatto che forse non ci si sarebbe mai preparati da soli, a scoprire nuovi alimenti poco conosciuti e apprezzati e soprattutto la convivialità aiuta a ridurre gli sprechi. Questo aspetto è diventato un criterio fondamentale per la sopravvivenza e il rispetto, in quanto la crescita della popolazione mondiale in modo esponenziale ha messo sul tavolo della sostenibilità la problematica della “security” alimentare ovvero la difficoltà sempre maggiore a garantire cibo per tutti. Sappiamo che con gli alimenti che si sprecano nei paesi occidentali si risolverebbero tutte le carenze alimentari dei paesi in via di sviluppo e più poveri. Essere a tavola con amici o famigliari aiuta a condividere gli alimenti riducendo gli avanzi e gli sprechi. La convivialità inoltre è gioia, è motivo di piacere di stare con le persone, e questo attribuisce al cibo un valore sociale di unione, relazione interpersonale e conoscenza reciproca molto importante nella crescita affettiva e nella maturazione sociale e civica degli individui di una comunità.

Ecco che all’improvviso la cucina italiana non rappresenta solo un insieme di ricette buone e appetitose, ma costituisce in realtà un modello di vita, fatto di cibi ovviamente, ma anche di cultura applicata alla tavola, non solo nella scelta degli alimenti ma anche nella profonda conoscenza di come coltivare, raccogliere, produrre e conservare le materie prime generate da un territorio molto generoso come quello italiano. Successivamente, questi prodotti alimentari vengono elaborati da cuochi (uomini e donne di casa inizialmente e oggi anche da chef stellati) per offrire piatti unici non solo nei loro sapori ma come abbiamo visto anche nella loro capacità di offrire salute. Non per niente la longevità in Italia è tra le più alte al mondo. Dobbiamo approfittare di questo tesoro che abbiamo a disposizione, promuovere le conoscenze e la cultura del rispetto del territorio e in particolare della stagionalità dei prodotti per non cercare nutrienti da un prodotto che se fuori stagione o proveniente da molto lontano probabilmente non ne contiene o forse sono molto poco presenti. Solo così la cucina italiana può diventare una vera ambasciatrice di cultura, sapori, saperi e stili di vita italiani nel mondo.

Latte e yogurt, un decalogo ne spiega i benefici

Una sana alimentazione passa inevitabilmente anche dal consumo quotidiano di latte e yogurt. A tracciarne le linee guida il “Decalogo per il corretto consumo di latte & yogurt nell’alimentazione quotidiana”: elaborato dal Tavolo Tecnico sulla Sicurezza Nutrizionale (TaSiN), al quale siede Federalimentare, che si occupa di sorveglianza nutrizionale ed esprime una visione autorevole e concordata su argomenti considerati sensibili e importanti per la popolazione. 

Il documento sottolinea l’importanza di consumare ogni giorno latte e yogurt; alimenti preziosi e unici per la ricchezza e la qualità dei loro nutrienti. 

È importante sottolineare come, a livello internazionale e nazionale, le linee guida per una corretta alimentazione siano concordi nello stabilire l’importanza di consumare quotidianamente latte e yogurt, e gli studi effettuati, nel rapporto quantità-benefici, hanno stabilito che latte, yogurt e i loro derivati possono essere dei validi alleati per ridurre il rischio di malattie cardiovascolari, ictus, ipertensione, obesità e osteoporosi.

Il Decalogo analizza i benefici di latte e yogurt partendo dall’assunzione quotidiana di questi alimenti per poi delinearne le proprietà nutritive, i benefici, le capacità energetiche fino ad evidenziarne le qualità salutari per l’organismo e l’idoneità di consumo ad ogni età. (vedi decalogo)

Secondo i dati raccolti dagli esperti, nell’ultima decade, la percentuale di coloro che consumano quotidianamente latte è passata dal 62,2% al 48,1%, determinando soprattutto un aumento del consumo non giornaliero e più occasionale di questo prezioso alimento, coinvolgendo maggiormente la fascia di età 6-24 anni.

Dati che hanno indotto gli esperti TaSIN a ribadire il corretto posizionamento di latte e yogurt nell’ambito di una dieta sana ed equilibrata: latte, yogurt e derivati sono prodotti essenziali per l’organismo e se consumati nelle quantità consigliate (375 ml pari a 3 bicchieri al giorno) contribuiscono ad accrescere il benessere psico-fisico.  

Per conoscere da vicino il latte e suoi derivati, saperne di più su lavorazione, caratteristiche e qualità, il modo migliore per farlo, è affidarsi a chi ogni giorno realizza questi prodotti (Lattendibile.it e Assolatte.it).

Autore: Comitato di Redazione

Sicurezza alimentare, una priorità per l’industria alimentare italiana e per i consumatori

La sicurezza alimentare da sempre è al vertice delle priorità dei consumatori che, soprattutto nell’era del post Covid, si dimostrano più attenti a ciò che consumano, alla qualità dei prodotti e agli impatti del processo produttivo. Accanto a questo requisito preliminare e irrinunciabile, viene riconosciuta crescente importanza alla sostenibilità e alla capacità delle scelte alimentari di contribuire al benessere nell’ambito di una dieta equilibrata e di stili di vita corretti: si tratta di aspetti al centro delle politiche nazionali e comunitarie dedicate al settore agroalimentare rilanciate dalla strategia Farm to Fork dell’UE, che andrà declinata e implementata con un approccio equilibrato e realistico, nel rispetto dei tre pilastri della sostenibilità: ambientale, economico e sociale.  

Fra i 27 Stati membri dell’Ue, l’Italia è la Nazione che maggiormente ha investito e investe nella “sicurezza alimentare”, tanto che le industrie del food & beverage applicano standard elevatissimi in materia, dedicando capitoli di spesa specifici proprio per garantire la sicurezza dei prodotti. Risorse economiche e know-how ma anche ricerca e innovazione, controlli, tracciabilità degli alimenti e dei loro ingredienti e dei materiali a contatto, informazione al consumatore e comunicazione sono i driver per promuovere e garantire la sicurezza dei prodotti alimentari in risposta alle esigenze dei consumatori.  

Secondo i dati più recenti, più di 3 miliardi di euro, pari a oltre il 2% del fatturato dell’industria alimentare è stato dedicato nel 2021 alla sicurezza dei prodotti, mentre ammontano a 10 miliardi di euro (8% del fatturato) gli investimenti in attività di ricerca e sviluppo, in buona parte destinati a sicurezza, qualità e continuo miglioramento delle caratteristiche nutrizionali dei prodotti. Accanto all’aspetto finanziario, c’è il capitale umano: oltre 85.000 persone che l’industria alimentare impegna ogni giorno in attività di analisi e controllo sicurezza e qualità; le stime sui dati delle imprese del Sistema Associativo Federalimentare, quantificano in circa 2,8 milioni al giorno le analisi realizzate in autocontrollo, per 1 miliardo di analisi all’anno, cui si aggiungono 700.000 controlli ufficiali da parte delle Autorità competenti.

In materia di controlli pubblici finalizzati a garantire la sicurezza alimentare, poi, l’Italia può contare su un sistema all’avanguardia e strutturato, che vede lavorare in sinergia le Autorità centrali, a partire dal Ministero della Salute insieme agli altri Organismi e Amministrazioni funzionalmente competenti – con il sistema delle Regioni e delle Autorità sanitarie dislocate sul territorio e con gli operatori del settore alimentare, per garantire una filiera produttiva sicura, e conforme al rigido quadro delle norme UE e nazionali. 

Il consumatore, in qualità di destinatario finale del prodotto, diventa parte integrante della filiera, con un ruolo centrale per l’efficace funzionamento del sistema di sicurezza alimentare. Tale funzione si esplica nelle fasi di acquisto, conservazione, manipolazione, preparazione e consumo di un prodotto alimentare. È infatti nella responsabilità individuale del consumatore verificare le informazioni in etichetta, come ad esempio la data di scadenza e la presenza di allergeni, conservare correttamente gli alimenti, nonché segnalare eventuali anomalie alle aziende produttrici oppure alle autorità competenti. E sono proprio i consumatori i giudici più attenti del prodotto finale, e i beneficiari ultimi dei grandi investimenti realizzati dall’Industria degli alimenti e delle bevande in sicurezza, qualità e sostenibilità per fornire loro prodotti eccellenti e guadagnarsi la loro fiducia.

Autore: Comitato di Redazione

Il ruolo delle etichette alimentari quali veicolo del consumo consapevole

In un panorama dove è sempre più vasta e diversificata la scelta di quello che possiamo mettere sulle nostre tavole, la necessità di un’informazione trasparente, chiara, completa, rappresenta una delle aspettative più importanti del consumatore, che non si presenta più come un soggetto passivo che subisce il mercato, ma anzi chiede di essere messo in condizione di fare scelte sempre più consapevoli.

Il veicolo principale di questo tipo di comunicazione, che mette insieme informazioni e immagine del brand adeguandosi di volta in volta alle normative, al mercato e alla società, è l’etichetta alimentare. 

Anche se cambiano i suoi colori e i suoi formati, che da tabelle possono diventare codici a barre o QR code da leggere tramite gli smartphone, l’etichetta permette di conoscere in modo immediato le caratteristiche dei prodotti che acquistiamo e consumiamo.

La necessità di avere un consumatore più informato e consapevole è particolarmente sentita anche dalle istituzioni, sia a livello nazionale che europeo, soprattutto in tema di etichettatura nutrizionale, laddove il comportamento alimentare è riconosciuto come uno dei fattori di prevenzione di malattie legate precipuamente alla nostra epoca, ovvero le c.d. malattie non trasmissibili quali malattie cardiovascolari, tumori, diabete.

La conoscenza delle qualità e caratteristiche nutrizionali degli alimenti, infatti, diventa uno strumento importante per offrire al consumatore tutti gli elementi utili per seguire diete sane e bilanciate contribuendo in questo modo a garantirgli sia il diritto alla corretta informazione che alla salute. Ed è proprio in funzione di questo nobile scopo che, negli ultimi anni, abbiamo assistito all’accendersi del dibattito intorno alla c.d. etichettatura nutrizionale fronte pacco (detta FOP). 

La fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori è disciplina armonizzata a livello europeo e le sue regole sono stabilite all’interno del Regolamento UE 1169/2011, una vera e propria Bibbia del settore, con lo scopo di garantire pari condizioni agli operatori del mercato unico ma anche coerenza informativa a tutti i consumatori dell’UE.

In ambito di etichettatura nutrizionale, il Regolamento stabilisce che sull’etichetta di tutti gli alimenti pre-imballati vada obbligatoriamente inserita la c.d. dichiarazione nutrizionale (il più delle volte rinvenibile nel retro confezione sotto forma di tabella) di modo che il consumatore possa conoscere le calorie nonché le quantità dei principali nutrienti contenuti nel prodotto che si appresta ad acquistare. Inoltre, il Regolamento stabilisce anche che è possibile riportare in modo volontario alcune di queste info fronte pacco per una più immediata visualizzazione da parte del consumatore.

In quest’ultimo caso parliamo di sistemi di etichettatura FOP, sistemi che la Commissione Europea ritiene possano giocare un ruolo importante nell’aiutare il consumatore a seguire diete più sane ed equilibrate e, per questo, vorrebbe presentare una proposta legislativa che proponga uno schema unico ed armonizzato a livello europeo.

Tale volontà – manifestata all’interno della c.s. Strategia Farm to Fork – ha aperto un acceso dibattito su quale dovesse essere lo schema FOP europeo soprattutto in considerazione del fatto che – negli ultimi anni – diversi schemi si sono diffusi nei i vari stati membri, in alcuni casi anche completamente antitetici gli uni agli altri.

È il caso della ormai nota diatriba fra il NutrInform (lo schema creato e sostenuto dall’Italia) ed il Nutri-Score (lo schema creato e sostenuto dalla Francia), diatriba al centro della quale c’è proprio il diritto del consumatore a ricevere un’informazione corretta che aumenti le proprie conoscenze nutrizionali e lo metta nelle condizioni di seguire diete più salutari.

Dunque, a fronte di una comunicazione semplice ed immediata come quella fornita dal Nutri-Score – che è un sistema che giudica i singoli alimenti attraverso una scala cromatica che va dal verde al rosso sulla base dei quantitativi di alcuni nutrienti ivi contenuti – si contrappone un sistema come il NutrInform– che, invece, è più descrittivo e parte dal presupposto opposto per il quale non sono i singoli alimenti ad essere “buoni” o “cattivi” di per sé ma che a contare siano le quantità e le frequenze di assunzione da valutarsi nell’arco della dieta giornaliera.

Di fatto una delle più importanti e sentite critiche mosse verso lo schema francese è proprio quella di semplificare eccessivamente le informazioni finendo per restituire una comunicazione che più che semplice diventa semplicistica e che, più che offrire uno strumento informativo al consumatore consapevole, gli dice banalmente cosa comprare e consumare relegandolo più a soggetto passivo dell’informazione (ovvero che si limita a reagire allo stimolo visivo del colore senza pensare) piuttosto che renderlo il soggetto attivo e consapevole che ci si aspetterebbe e auspicherebbe avere in una società di diritti matura come quella dell’Unione Europea.

Autore: Comitato di Redazione

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