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IL BUONO DEL CIOCCOLATO

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Il pensiero del cioccolato, aldilà della piacevolezza del suo consumo, richiama abitualmente un concetto di alimento pericoloso in quanto ipercalorico e ricco di zucchero, ed è spesso oggetto di demonizzazione quando lo si analizza da un punto di vista nutrizionale. Come stanno veramente le cose? Dobbiamo davvero starne alla larga?

Molti alimenti possiedono, oltre ad una azione energetica e nutriente, effetti addizionali potenzialmente utili alla salute e per tale motivo vengono considerati alimenti funzionali. Un alimento è definito funzionale se, oltre alle sue proprietà nutrizionali, è scientificamente dimostrata la sua capacità di influire positivamente su una o più funzioni fisiologiche, contribuendo a migliorare lo stato di salute e a ridurre il rischio di insorgenza delle malattie correlate al regime alimentare. Classici alimenti funzionali possono essere considerati lo yogurt, i broccoli, il pomodoro, i legumi e le noci. Nel concetto classico di alimento funzionale viene sottolineata l’importanza dell’azione benefica sulle funzioni organiche di un individuo, ma viene trascurato l’aspetto positivo legato agli effetti psicologici e gustativi che si possono aggiungere a quelli organici, migliorando di molto la qualità di un alimento rendendolo, anche per questo, funzionale. L’opportunità di valutare anche gli aspetti psicologici e gustativi di un alimento rilancia il ruolo di un alimento particolare, non solo ricco di nutrienti, di energia e di sostanze benefiche per la salute, ma anche fonte di piacere: il cioccolato. Raccomandato fin dall’antichità in caso di astenia, oggi spesso viene bandito, per il suo elevato valore calorico, nei paesi come l’Italia dove l’obesità rappresenta un importante problema sanitario.

In realtà, le proprietà del cioccolato vanno ben oltre il semplice apporto calorico. L’elevato contenuto in ferro, potassio e sostanze nervine (teobromina) offre la possibilità di impiego terapeutico in numerose condizioni morbose. La presenza di flavonoidi e di alcuni grassi vegetali poco aterogenici garantisce un’azione antiossidante e antiaggregante con il conseguente effetto cardioprotettivo. Inoltre, la stimolazione dei recettori cannabinoidi ad opera di alcune sostanze neuroattive conferisce a questo alimento la particolarità di determinare una sensazione di benessere indipendente dal senso di sazietà legato all’assunzione di un cibo calorico.

La scienza medica ha studiato a fondo gli effetti farmacologici del cioccolato in relazione agli effetti sul sistema nervoso centrale e sulla psiche, ma fin dall’antichità, quando il rigore del metodo scientifico ancora non esisteva, veniva impiegato come  alimento divino di cura tra le popolazioni Olmec, Azteche e  Maya (1) o, nel XVI° secolo, come vera e propria arma terapeutica nel trattamento della fatica (2), della febbre e dell’insufficienza cardiaca (3).

Tra il XVI° e il XX° secolo, il cioccolato più che un farmaco era considerato ciò che oggi chiameremmo uno strumento della medicina naturale, e veniva somministrato in modo empirico da artisti della medicina per curare i pazienti emaciati, per stimolare il sistema nervoso nei soggetti affetti da astenia (4), o per migliorare la digestione e la funzione intestinale (5). Sempre senza particolari motivazioni scientifiche, almeno per le conoscenze dell’epoca, veniva consigliato alle donne con scarsa capacità di allattamento e agli uomini per migliorare la virilità maschile, mentre il burro di cacao, per le sue proprietà emollienti ed isolanti, veniva impiegato nella cura delle ferite e delle irritazioni cutanee (4). Infine, il cioccolato poteva essere utilizzato come via di somministrazione di farmaci sotto forma di bevanda o grazie al burro di cacao per la fabbricazione di supposte.

Successivamente, la conoscenza scientifica ha permesso di capire (ma tuttora in modo non esaustivo) quali sono gli elementi del cioccolato che possono esprimere effetti farmacologici e nutrizionali.

Il cioccolato, inconsapevolmente, è stato forse il primo pilastro di un ponte teso tra scienza e credenza, e per questo potrebbe essere considerato l’anello di congiunzione tra la cultura popolare e la medicina scientifica nonché il simbolo di fusione tra la farmacologia e la terapia empirica.  

Il cioccolato è un alimento composto da vari nutrienti alcuni dei quali sono estremamente variabili e questo fatto conferisce ai diversi tipi di cioccolato caratteristiche nutrizionali, caloriche ed organolettiche decisamente differenti.

La pianta del cacao (Theobroma Cacao) è un albero di media grandezza che cresce allo stato selvatico in Amazzonia, e si coltiva in America centro-meridionale e nell’Africa tropicale. I semi amarissimi contenuti nel frutto contengono sostanze grasse (40-50%), amido, zuccheri, proteine e altre sostanze tra le quali teobromina e caffeina. La presenza di questi nutrienti, e in particolari dei grassi come il burro di cacao, fa la differenza tra il potere calorico nutrizionale del cacao rispetto a quello di altre sostanze nervine, spesso equiparate, come il caffè e il tè. 

Infatti, 100gr di polvere di cacao forniscono 355 Kcal, mentre un’equivalente quantità di polvere di caffè o di foglie di tè ne apportano 287 e 108 rispettivamente (6). Va considerato però che una tazzina di caffè contiene in media appena 6 grammi di polvere e una bustina di tè circa 2 grammi di foglie, mentre una tazza di cioccolata contiene circa 50 grammi di cioccolato (che rispetto alla semplice polvere di cacao fornisce 542 Kcal) ai quali vanno aggiunte le calorie di circa 200 ml di latte.

Pare evidente che il cioccolato rappresenta un alimento vero e proprio contenente proteine, grassi e carboidrati e che fornisce una notevole quantità di calorie ed è quindi comprensibile il suo impiego fin dall’antichità come ricostituente nei casi di astenia. 

Al contrario, nelle società occidentali di oggi come come quella italiana, dove il problema dell’obesità costituisce uno dei principali problemi sanitari, e la percentuale di soggetti con un indice di massa corporea (IMC) al di sopra del normale è in continua crescita, il cioccolato potrebbe essere additato come cibo da bandire, in particolare tra i bambini e gli adolescenti.

Siccome però la cultura del proibizionismo è risultata quasi sempre perdente, ecco che diventa importante l’educazione alimentare. Sapere quando il cioccolato può essere concesso, o addirittura consigliato, permette di accedere ai benefici di questo alimento limitando al massimo gli inconvenienti che può determinare la sua assunzione, anche perché le proprietà del cioccolato vanno al di là del semplice apporto calorico.

L’elevato contenuto in ferro (5 mg/100g) (quasi il doppio della quantità contenuta nella carne) potassio (300 mg/100g) e calcio (262 mg/100g nel cioccolato al latte) lo rendono un alimento utile (pur tenendo conto della non eccellente biodisponibilità) in corso di anemia, di ipopotassiemia, o nelle fasi della crescita laddove l’eccesso di peso o la presenza di diabete non ne sconsiglino l’utilizzo.

Come è stato detto, il cioccolato contiene, come il caffè e il tè, una di quelle sostanze (la teobromina) che viene annoverata come “nervina” perché esercita effetti sul sistema nervoso centrale stimolando l’attenzione e la vigilanza, e migliorando l’efficienza fisica e mentale. 

Gli effetti sul SNC di teobromina e di caffeina contenute nelle quantità abitualmente assunte di cioccolato sono meno evidenti di quelle osservate dopo assunzione di alcune tazzine di caffè. Questi effetti sono rappresentati da una maggiore rapidità e fluidità del pensiero e riduzione del tempo di reazione. I fenomeni di tolleranza a queste azioni osservati dopo il consumo abituale di queste xantine sono difficilmente osservabili con l’assunzione del cioccolato rispetto a quanto accade con il caffè, e lo stesso si può affermare in merito all’azione rebound in seguito all’eccessiva quantità di adenosina endogena liberata dopo brusca sospensione delle sostanze nervine (7).

La ricerca del cioccolato, osservata in modo quasi compulsivo in alcune persone, risulta essere qualcosa di più definito e mirato rispetto alla semplice voglia di cibo come gratificazione. Le etanolamine presenti agirebbero stimolando i recettori cannabinoidi del SNC sia direttamente che indirettamente aumentando i livelli di anandamide (8). Questo fatto potrebbe conferire al cioccolato la particolarità di determinare una sensazione di benessere indipendente dal senso di sazietà legato all’assunzione di un cibo calorico. 

Infine, il cioccolato, contenendo anche fenil-etilamine e tiramina, avrebbe in qualche modo un’azione anfetamino-simile riducendo il senso di stanchezza fisica e psichica, oltre ad attenuare i sintomi depressivi grazie all’abbondante presenza di triptofano, precursore della serotonina, uno dei mediatori neurochimici del benessere.

Molto è stato discusso sugli effetti del cioccolato sul sistema cardiovascolare. 

La presenza di elevati livelli di grassi che possono raggiungere il 37,6% in quello al latte (6) farebbe presupporre un alto rischio aterogenico. I grassi contenuti nel cioccolato derivano principalmente dal burro di cacao la cui composizione è rappresentata da acidi grassi saturi del tipo palmitico, stearico e laurico. Il laurico e il palmitico sono acidi grassi con un elevato potere aterogenico mentre l’acido stearico, per la sua veloce desaturazione ad acido oleico svolge un ruolo protettivo sui vasi (9). Invece, l’assenza di colesterolo e la notevole quantità di flavonoidi, sostanze con effetto antiossidante, inclinano la bilancia degli effetti cardiovascolari sul lato della protezione, anche perché i flavonoidi mostrano effetti antiaggreganti equivalenti all’aspirina (10).  Altri studi hanno peraltro dimostrato l’effetto vasodilatatore positivo del cioccolato amaro sulle coronarie (11).

Gli aspetti negativi del cioccolato sulla salute riguardano come già detto i pazienti obesi o quelli diabetici per il valore calorico di questo alimento e per la presenza di zuccheri semplici. Va inoltre considerato il rischio che l’assunzione del cioccolato possa dare origine ai sintomi della malattia da reflusso gastroesofageo e alla cefalea in alcune forme di emicrania.

In conclusione, possiamo affermare che consumato nelle giuste (moderate) quantità, il cioccolato costituisce una fonte preziosa di nutrienti e rappresenta una sorta di alimento funzionale per i benefici che può esercitare sulla psiche e sul sistema nervoso.

BIBLIOGRAFIA

  1. Tedlock D. Popol Vuh: The Definitive Edition of the Mayan Book of the Dawn of Life and the Glories of Gods and Kings 1985 Touchstone New York, NY
  2. Badianus Manuscript. De la Cruz, M. et al. 1552
  3. Florentine Codex  See de Sahagún, B. 1590
  4. Dillinger TL , Barriga P, Escárcega S, Jimenez M, Salazar Lowe D, Grivetti LEJournal of Nutrition. 2000;130:2057S-2072S Food of the Gods: Cure for Humanity? A Cultural History of the Medicinal and Ritual Use of Chocolate
  5. Hurtado T. Chocolate y Tabaco Ayuno Eclesiastico y Natural. Por Francisco Garcia, Impressor del Reyno 1645 A Costa de Mauel Lopez, Mercador de Libros Madrid, Spain.
  6. Carnevale E, Ciuccio F. Tabelle di composizione degli alimenti a cura dell’Istituto Nazionale della Nutrizione. Ed. Litho Delta 1989.
  7. Caprino L, Russo P. Bevande alcoliche e nervine. In: Mariani A, Cannella C, Tomassi G. Fondamenti di Nutrizione Umana. Ed: Il pensiero Scientifico Editore 1999; 253-273.
  8. di Tomaso E, Beltramo M, Pomelli D. Brain cannabinoids and chocolate. Nature 1996;382:677-678.
  9. Tomassi G. Grassi (o lipidi). In: Mariani A, Cannella C, Tomassi G. Fondamenti di Nutrizione Umana. Ed: Il pensiero Scientifico Editore 1999;223-252.
  10. Pearson DAPaglieroni TGRein DWun TSchramm DDWang JFHolt RRGosselin RSchmitz HHKeen CL   The effects of flavanol-rich cocoa and aspirin on ex vivo platelet function.Thromb Res. 2002;106(4-5):191-7.
  11. Flammer AJ, Hermann F, Sudano I et al. reactivity. Circulation. 2007 Nov 20;116(21):2376-82. 
SONNO E ALIMENTAZIONE

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

L’insonnia, o il semplice dormire male, è causa importante di malessere diurno, non solo per il fatto che spesso può comportare problemi di umore come irritabilità e nervosismo, cosa che tutti abbiamo sperimentato, ma secondo alcuni studi dell’Associazione Italiana di Medicina del Sonno pare che la mancanza di sonno provochi disturbi cardiovascolari e depressivi.

Il sonno gioca anche un ruolo importante nel funzionamento metabolico dell’organismo. Durante il sonno, infatti, il metabolismo si rallenta e di conseguenza l’organismo “consuma” di meno (sempre che il sonno sia tranquillo), ma è anche vero che il sonno prolungato equivale ad un digiuno, e in questa condizione si attivano alcune vie cataboliche al fine di mantenere costante il livello di glucosio nel sangue (unico nutriente utilizzato dal nostro cervello oltre ai corpi chetonici utilizzati in situazioni emergenziali) che portano al trasferimento del grasso contenuto nel tessuto adiposo verso il fegato per ottenere energia. Quindi l bilanciamento di questi due effetti contrari può portare conseguenze diverse da un individuo a un altro secondo la sua capacità metabolica di adattamento. Inoltre, il sonno di breve durata, o frequentemente interrotto, aumenta i livelli nel sangue della grelina (ormone con effetti antagonisti della leptina) e questo porterebbe ad un aumento dell’appetito diurno e, conseguentemente, del peso corporeo.

La durata ideale del sonno dovrebbe essere di circa otto ore, tempo necessario all’organismo per il recupero dei meccanismi cellulari ma questo è un dato puramente teorico.  Si sa che alcune persone riescono a svolgere la propria vita in modo efficiente anche dormendo poco e viceversa. È importante ricordare però che non tutti i sonni sono ristoratori. Non basta “rimanere incoscienti” per otto ore, è necessario che siano rispettati i ritmi e le profondità del sonno. Per esempio, la comparsa delle apnee notturne negli obesi o nei bronchitici cronici che frequentemente comportano una uscita dal sonno REM anche senza risveglio, sono la principale causa della sonnolenza diurna, della stanchezza al risveglio e dei colpi di sonno al volante. 

Come può aiutare l’alimentazione a garantire un buon sonno? Esistono dei cibi della buona notte?

Sicuramente si. Innanzitutto, bisogna evitare di andare a dormire subito dopo una cena abbondante o a digiuno, perché entrambe le condizioni possono ostacolare il sonno. Nel primo caso, con la posizione orizzontale, lo stomaco disteso può sollevare il diaframma rendendo più difficoltosa la respirazione nella fase di addormentamento e inoltre l’assorbimento dei nutrienti appena ingeriti mantiene attivo il sistema nervoso. Nel secondo caso, i bassi valori di glicemia possono attivare alcuni meccanismi volti alla ricerca del cibo che ostacolano il sonno.  

Oltre alle quantità e agli orari della cena è anche importante scegliere gli alimenti giusti per aiutare il buon sonno. Per esempio, sappiamo che il latte tende a conciliare il sonno. Questo è dovuto al fatto che alcune proteine del latte, in particolare la caseina, vengono digerite dalla pepsina, tripsina e carbossipeptidasi in peptidi dotati di attività biologica come le casomorfine che, stimolando i recettori oppioidi, conciliano il sonno. Il triptofano è un amminoacido precursore della serotonina e della melatonina e quindi gli alimenti che lo contengono (uova, nocciole, arachidi, legumi, carne e pesce) sono indicati nei soggetti che soffrono di insonnia. Sono anche utili a questo scopo gli alimenti ricchi di melatonina come l’avena, l’orzo e le mandorle. 

Bisogna evitare invece vino, formaggio, cioccolato e cavoli, perché contengono tiramina, una ammina che inducendo la sintesi dell’adrenalina rende il sonno più difficile. Sono anche sconsigliati gli alimenti e le bevande ricche di sostanze nervine come il cioccolato, il caffè, il tè e le bevande energizzanti. Molte sostanze contenute in questi alimenti 

possono esercitare un effetto eccitatorio sul sistema nervoso centrale anche se è importante sottolineare la grande differenza esercitata dal loro consumo saltuario rispetto a quello abituale, in quanto un consumatore occasionale può avere difficoltà a dormire dopo un solo caffè mentre un bevitore abituale può non notare alcun effetto. Anche l’alcol può interferire con il sonno perché è un inibitore del sistema nervoso centrale e può indurre sonnolenza dopo la prima fase di euforia.

Mangiare frutta e verdura e bere molta acqua durante il giorno può migliorare il sonno soprattutto nei soggetti che soffrono di crampi notturni. Questi tendono a comparire durante la notte perché assumiamo posizioni statiche prolungate che possono rendere più difficile l’irrorazione ai muscoli i quali possono andare in sofferenza soprattutto per la carenza di potassio e magnesio. Ecco che diventa importante assicurarsi , durante il giorno, un corretto apporto di sali minerali e vitamine per riposare meglio.

Infatti, tra i motivi responsabili di un cattivo sonno troviamo stress, ansia, farmaci, oppure fattori legati a sindromi particolari, come apnee notturne influenzate da un irregolare flusso di aria ai polmoni o il cosiddetto mioclono notturno, che consiste in scatti incontrollati delle gambe e nella comparsa di contrazioni muscolari (la sindrome delle gambe senza riposo). Queste sono problematiche per le quali sono necessarie analisi approfondite, come la polisonnografia (che monitora l’andamento del sonno) per accertare le cause dei disturbi.

Oltre ad intervenire con una cura appropriata in caso di disturbi fisiologici veri e propri, la sana alimentazione, in particolare riferita alle pietanze della cena, può essere di grande aiuto soprattutto se ricche di magnesio, e di vitamine del gruppo B, come la B3 (niacina) e la B6, indispensabili per il buon funzionamento del sistema nervoso e la corretta attività muscolare. 

Ecco nel dettaglio quali sono gli alimenti più indicati per un buon sonno. 

Cereali 

Tra gli alimenti che garantiscono un sonno di qualità c’è il riso, da preferire alla pasta e da scegliere nella variante integrale: tra le sue “performance” nutrizionalitroviamo la grande capacità calmante, grazie al maggiore indice glicemico e alla presenza del triptofano e quindi della serotonina. Proprio per il suo indice glicemico, e per il discreto contenuto calorico, è consigliabile mangiarlo comunque con moderazione, preferibilmente con un condimento leggero come un filo d’olio extravergine di oliva e delle verdure. I diabetici dovrebbero invece preferire la pasta alla sera rispetto al riso. Tra i cereali, anche l’avena e l’orzo, ottimi per una gustosa zuppa, possono contribuire a dormire meglio anche grazie al loro contenuto in melatonina. Così come latticini come la ricotta, anch’essi ricchi di triptofano, formaggi non stagionati, e naturalmente latte parzialmente scremato: berne una tazza calda prima di mettersi sotto le coperte è utile. 

Verdure e semi

Contro insonnia e cattivo riposo intervengono anche alcune verdure come spinaci e bietole, fonti di magnesio ma anche di clorofilla, che migliora l’apporto di ossigeno al sangue, oltre che di vitamine del gruppo B che favoriscono il rilassamento muscolare. Meglio mangiarli crudi, appena scottati o cotti al vapore, per non disperdere questi preziosi nutrienti.

Anche alcuni semi si rivelano grandi alleati del sonno, come quelli di zucca, piccoli forzieri di triptofano e magnesio, ma anche ricchi di fitoestrogeni naturali, carotenoidi, vitamina E. Ricordiamo che ananas e zenzero  contengono melatonina. Anche i semi di sesamo aiutano a riposare bene grazie al loro contenuto di magnesio, triptofano, vitamina B3.

Legumi e pesce azzurro

Ricchi di niacina sono anche i fagioli, in particolare quelli secchi, che possono contare su una buona percentuale di magnesio, sono molto proteici e sazianti. Importante anche la frutta secca, che riveste un ruolo fondamentale per l’armonia del ritmo sonno-veglia, soprattutto le mandorle (ma anche noci e nocciole), particolarmente ricche di magnesio e triptofano. Di quest’ultimo sono ottime fonti anche le sardine (così come gli altri pesci azzurri), che ne contengono ben 250 mg in un etto, insieme a una generosa percentuale di vitamina B6 e ai grassi buoni Omega 3, il tutto in 113 kcal per 100 grammi, che ben si conciliano con l’esigenza di stare leggeri a cena.

Cosa evitare se si soffre di insonnia.

Così come uno stomaco vuoto, uno stomaco troppo pieno non concilia il sonno, quindi meglio fare una cena non troppo abbondante e non abusare di alimenti molto ricchi di grassi, pesanti, ipercalorici, che ostacolerebbe la digestione e quindi il riposo. Evitate anche di abusare del sale, sostituendolo con spezie come basilico, origano, maggiorana, dagli effetti sedativi. No anche ad alcolici e super-alcolici, tè e caffè, dolci, che è meglio evitare di consumare a cena.

Il valore culturale della Cucina Italiana

Lorenzo M Donini

“Sapienza” Università di Roma

La declaratoria dell’UNESCO, che definisce la Dieta Mediterranea come patrimonio intangibile dell’Umanità, la descrive come “molto più di un semplice elenco di alimenti o una tabella nutrizionale” considerandola “uno stile di vita che comprende una serie di competenze, conoscenze, rituali, simboli e tradizioni concernenti la coltivazione, la raccolta, la pesca, l’allevamento, la conservazione, la cucina e soprattutto la condivisione e il consumo di cibo”.

L’arte culinaria è quindi un elemento caratterizzante la Dieta Mediterranea perché (continua la declaratoria) “mangiare insieme è la base dell’identità culturale e della continuità delle comunità nel bacino Mediterraneo, dove i valori dell’ospitalità, del vicinato, del dialogo interculturale e della creatività, si coniugano con il rispetto del territorio e dellabiodiversità”.

Le pratiche gastronomiche e la convivialità, nel bacino Mediterraneo, vanno di pari passo svolgendo “un ruolo vitale nei riti, nei festival, nelle celebrazioni, negli eventi culturali, riunendo persone di tutte le età e classi sociali”.

L’arte culinaria, implicita nella Dieta Mediterranea, è non solo l’amalgama di una vita comunitaria, ma è in grado di valorizzare anche “l’artigianato e le vocazioni locali, come la produzione di contenitori per la conservazione e il consumo di cibo, le manifatture artistiche di piatti e bicchieri di ceramica e vetro, l’arte del ricamo e della tessitura”.

Sempre secondo la declaratoria dell’UNESCO, la Dieta Mediterranea e l’arte culinaria sono valorizzate dalle donne che “giocano un ruolo fondamentale nella trasmissione delle conoscenze della Dieta Mediterranea in quanto si prendono cura dei famigliari e dei conoscenti preparando sia il cibo quotidiano che quello festivo e tramandano i loro segreti culinari a figli e nipoti, facendo dei banchetti festivi un’autentica celebrazione della vita”.

Tutti questi elementi di cultura e civiltà sono declinati nella grande varietà di tradizioni gastronomiche, che,probabilmente unico esempio al mondo, sono lo specchio di una storia che ha visto arrivare in Italia, stabilirsi e attraversarla popoli provenienti da tutti i punti cardinali, con il loro bagaglio di conoscenze, storia, alimenti, ricette. Una cucina, che si è radicata e si è evoluta nei diversi territori, valorizzando questi e le professioni dell’intera filiera agroalimentare, e che è stata interpretata in tanti modi diversi anche se con un minimo comun denominatore rappresentato dalla Dieta Mediterranea.

Questa esperienza interculturale, in una società che è sempre stata cosmopolita, ha favorito il dialogo tra i popoli e La contaminazione delle diverse tradizioni. Da qui nascono le mille ricette dell’arte culinaria Italiana, molto spesso caratterizzata dall’uso di prodotti dell’orto (verdure, ma anche erbe odorose) insieme a spezie e prodotti di altre tradizioni, che combinano i tanti diversi influssi e che riescono a stimolare in maniera così penetrante i nostri sensi (Capatti A, 2005).

Non solo, ma i continui contatti tra popoli e le conseguenti continue nuove esperienze di cibi nuovi, hanno portato alla coltivazione di tante diverse specie di frutta e ortaggi, al recupero e all’allevamento di tante diverse razze autoctone di animali fino a rappresentare, l’Italia, e la Cultura Gastronomica un importante baluardo della biodiversità sempre più minacciata in tante altre parti del Mondo da una sempre maggiore omogeneità dei consumi alimentari e dei sapori dei cibi.

Il concetto di biodiversità, valorizzato dall’Arte Culinaria Italiana, è uno degli elementi determinanti la sostenibilità di una filiera agroalimentare alla cui base sono presenti cereali, frutta, ortaggi, e olio di oliva, ma che considera tutti gli altri alimenti, nessuno escluso (carni, pesci, latte e derivati, dolci) come testimoniato dalla Piramide Alimentare Mediterranea in cui anche il vino, in dosi moderate e nell’ambito di uno stile di vita sano, può trovare spazio (Donini LM, 2024). Il concetto di sostenibilità, declinato nelle sue caratterizzazioni socio-culturale, economica, ambientale e nutrizionale, è ben valorizzato nel nostro Paese grazie proprio alla Cucina Italiana. Gli aspetti socioculturali (convivialità, consumo di produzioni prevalentemente locali, pratiche gastronomiche), la componente economica(valorizzazione dei territori e delle professionalità), la tutela dell’ambiente (minor consumo di acqua, terreno e energia, oltre a minor produzione di gas serra, tipici di una dieta basata prevalentemente su alimenti d’origine vegetale che non disdegna anche gli alimenti d’origine animale) e il valore nutrizionale (per la prevenzione della maggior parte delle malattie cronico-degenerative) rappresentano le caratteristiche della Dieta Mediterranea valorizzate dalle pratiche gastronomichedella Cucina Italiana (Dernini S, 2017; Serra-Majem LL, 2020).

Di non secondaria importanza, nell’ambito della promozione di una sempre maggior sostenibilità della filiera agroalimentare, il ricettario della tradizione gastronomica Italiana, che è caratterizzato da preparazioni dettate dalla necessità di utilizzare tutti gli alimenti, di non generare scarti, di non sprecare un bene prezioso quale è il cibo. La non sempre facile reperibilità, nella storia Italiana, di cibo ha trasformato l’ansia per la carenza di questo in un potente motore di lavoro e fantasia, con la conseguente valorizzazione di conoscenze e competenze, per rendere commestibile e appetibile qualsiasi prodotto del territorio. La grande tradizione nella conservazione degli alimenti (con la produzione, tra gli altri, di una grande varietà di formaggi e carni conservate di grande pregio) e il grande valore dell’industria conserviera Italiana sono il frutto anche della necessità di ridurre lo spreco alimentare rendendo disponibili gli alimenti in qualsiasi momento dell’anno, indipendentemente dalla stagionalità delle colture.

La cucina Italiana, pur avendo la capacità di rappresentare “l’alta cucina”, come testimoniato dai tanti chef stellati Italiani con la loro inventiva e intraprendenza, è soprattutto una cucina che viene dal basso, dal popolo che, anche nei momenti di difficoltà, ha dimostrato di saper affrontare queste con fantasia e immaginazione. La distinzione tra cucina d’élite e il mangiare del popolo è, d’altro canto, molto meno marcata nella tradizione Italiana con frequenti contaminazioni che testimoniano una qualche trasversalità sociale nella preparazione di cibi.

Tutto il percorso che è stato fatto dall’evoluzione della Filiera Agroalimentare e dalla valorizzazione della Cultura Gastronomica Italiana rappresenta un esempio per il Mondo. Nel momento in cui si teme l’impatto dell’ingresso in un periodo storico denominato Antropocene, si fa riferimento alla Dieta Mediterranea come modello alimentare in grado di contribuire a contrastare questo impatto. Non a caso buona parte delle Linee Guida nazionali per un’alimentazione sana e sostenibile prendono a modello i principi della Dieta Mediterranea declinandoli, correttamente, nelle proprie tradizioni e filiere agroalimentari (Willett W, 2019).

Non ultimo, la filiera agroalimentare e la cucina Italiane rappresentano un determinante motore dello sviluppo economico del Paese, non solo valorizzando conoscenze e competenze dei territori, ma anche esportando prodotti, ricette e, auspicabilmente, cultura. Non a caso, in Europa, è il nostro Paese a detenere il primato per il numero di denominazioni protette (DOC, IGT, DOCG), quale riconoscimento alle tradizioni gastronomiche e al patrimonio agroalimentare Italiano. La Cucina Italiana contribuisce a valorizzare le eccellenze del territorio, dei borghi rurali, dei siti Unesco, dei parchi naturali – archeologici, con la creazione di veri e propri itinerari in cui storia, cultura, tradizioni, filiere agroalimentari e arte culinaria si combinano. Un contributo importante alla valorizzazione della filiera agroalimentare e alla cucina Italiane è stato fornito anche dai tanti emigrati che hanno contribuito a diffondere la cultura e l’identità in ambito gastronomico, oltre che i prodotti, del nostro Paese.

Il sistema agroalimentare ha di fronte sfide importanti che dovranno affrontare le problematiche attuali (sanitarie e ambientali in primis), tener conto di come l’intera filiera del sistema agroalimentare (produzione, trasformazione, conservazione, distribuzione) sta evolvendo, per arrivare ad avere un’alimentazione sana e sostenibile a beneficio dell’essere umano e del pianeta.

Non è la prima volta che il sistema agroalimentare si trova ad affrontare rivoluzioni sostanziali e l’esempio italiano è emblematico (basti pensare, ad esempio, alle invasioni «barbariche» alla fine dell’Impero Romano d’Occidente o alla prima rivoluzione industriale). La stessa Dieta Mediterranea è il frutto delle continue mutazioni dovute agli alimenti e alle culture gastronomiche che, di volta in volta, si sono affacciate sulle sponde delMediterraneo portando cibi dall’Oriente e dalle Americhe, dal Nord Europa e dall’Africa.

Nella tradizione Italiana, si è sempre trovata, in maniera più o meno spontanea, una sintesi tra il «vecchio» e il «nuovo». Anche ora è necessario che, per affrontare le sfide che si profilano, si trovi una sintesi senza rifarsi unicamente a modelli passati (che mantengono la loro validità) e senza affrontare il futuro con atteggiamento o di accettazione passiva o di condanna preconcetta.

Riferimenti bibliografici

  • Capatti A, Montanari M. La cucina Italiana. Storia di una cultura. Ed Laterza, 2005 ISBN 9788858102084
  • Dernini S, Berry EM, Serra-Majem L, La Vecchia C, Capone R, Medina FX, Aranceta-Bartrina J, Belahsen R, Burlingame B,Calabrese G, Corella D, Donini LM, Lairon D, Meybeck A, Pekcan AG, Piscopo S, Yngve A, Trichopoulou A. Med Diet 4.0: the Mediterranean diet with four sustainable benefits. Public Health Nutr. 2017 May;20(7):1322-1330. doi: 10.1017/S1368980016003177
  • Donini LM, Castelli G, Contel M, Esti M, Gazzaniga V, Gerbi V, Giacco R, Giovinazzo G, Macrì A, Manzi G, Menchise C, Poli A,Todisco P. EFFETTI DELL’ASSUNZIONE DI VINO IN MODO RESPONSABILE E IN DOSI MODERATE NELL’AMBITO DI UNO

STILE DI VITA SANO. chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://clusteragrifood.it/wp-content/uploads/2023/12/POSITION-PAPER-CLAN_ASSUNZIONE-VINO-IN-MODO-RESPONSABILE.pdf

  • Serra-Majem L, Tomaino L, Dernini S, Berry EM, Lairon D, Ngo de la Cruz J, Bach-Faig A, Donini LM, Medina FX, Belahsen R, Piscopo S, Capone R, Aranceta-Bartrina J, La Vecchia C, Trichopoulou A. Updating the Mediterranean Diet Pyramid towards Sustainability: Focus on Environmental Concerns. Int J Environ Res Public Health. 2020 Nov 25;17(23):8758. doi:10.3390/ijerph17238758
  • UNESCO, Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO. Dieta Mediterranea. 2010 https://www.unesco.it/it/iniziative-dellunesco/patrimonio-culturale-immateriale/dieta-mediterranea/
  • Willett W, Rockström J, Loken B, Springmann M, Lang T, Vermeulen S, Garnett T, Tilman D, DeClerck F, Wood A, Jonell M, Clark M, Gordon LJ, Fanzo J, Hawkes C, Zurayk R, Rivera JA, De Vries W, Majele Sibanda L, Afshin A, Chaudhary A, Herrero M, Agustina R, Branca F, Lartey A, Fan S, Crona B, Fox E, Bignet V, Troell M, Lindahl T, Singh S, Cornell SE, Srinath Reddy K, Narain S, Nishtar S, Murray CJL. Food in the Anthropocene: the EAT-Lancet Commission on healthy diets from sustainable food systems. Lancet. 2019 Feb 2;393(10170):447-492. doi: 10.1016/S0140-6736(18)31788-4.
Agli Stati Generali del Mercato Food & Beverage Giangiacomo Pierini, Presidente di ASSOBIBE, ribadisce gli effetti deleteri prodotti dalla “Sugar Tax”

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IL CAFFE’: FORSE NON TUTTI SANNO CHE…

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Il caffè, la bevanda nazionale italiana per eccellenza, secondo un’indagine condotta da AstraRicerche risulta essere la bevanda più diffusa in Italia. Tra i 18-65enni ben il 96,6% consuma, almeno saltuariamente, caffè o bevande a base di caffè o che lo contengono; nessuna variazione rispetto alla rilevazione precedente del 2014 che riscontrava il 96,5%.

I comportamenti più diffusi sono bere 2-3 caffè al giorno (38.2%) o 3-4 al dì (38.3%) con una media di poco inferiore ai tre (2,75: il consumo è lo stesso per uomini e donne mentre cresce al crescere dell’età, è più elevato nel Sud e nelle grandi città.

Il caffè continua ad essere consumato prevalentemente a casa propria (90,3% ed era 89,4% nel 2014), ma sono molteplici i luoghi in cui lo si beve. 

Il caffè contiene oltre 900 sostanze, la più studiata delle quali è la caffeina. Sono però presenti anche proteine, lipidi, carboidrati (solubili ed insolubili), minerali, vitamine e soprattutto polifenoli con importanti proprietà antiossidanti. La tostatura cui il caffè è sottoposto può ridurre la presenza o l’attività di molte di queste sostanze. Tra i principali antiossidanti presenti nel caffè si trovano i polifenoli, presenti oltre che nel caffè anche in una grande varietà di alimenti, in particolare nella frutta e nella verdura. I polifenoli sembrano agire non solo come antiossidanti ma anche come attivatori di meccanismi protettivi endogeni dell’organismo.

Tra le azioni attribuibili ai polifenoli del caffè va ricordato l’effetto antinfiammatorio, ritenuto oggi essenziale per la prevenzione cardiometabolica (aterosclerosi, diabete), ma anche nei confronti di patologie degenerative di natura oncologica e neurologica (demenze). Sembra che ai polifenoli del caffè si possa attribuire anche una riduzione della capacità digestiva dei carboidrati complessi, come gli amidi, in di- e mono-saccaridi, che ridurrebbe i picchi glicemici e insulinemici post-prandiali: l’effetto sarebbe mediato dall’inibizione dell’alfa-amilasi, enzima intestinale che digerisce gli amidi di pasta, pane e patate. I polifenoli del caffè influenzerebbero infine la composizione del microbiota intestinale con effetti positivi da un punto di vista prebiotico a favore dello sviluppo di batteri utili all’organismo. 

La sostanza che a tutti viene subito in mente appena si parla di caffè è la caffeina. La caffeina (presente anche nel tè, nel cacao ed aggiunta ad alcune bibite) ha effetti noti sul sistema nervoso centrale, con aumento dello stato di allerta e riduzione della tendenza al sonno; migliora l’efficienza muscolare, induce un transitorio aumento della frequenza cardiaca ed il rilassamento di bronchi e bronchioli. Inoltre, la caffeina sembra avere un ruolo importante nella salvaguardia della memoria come si evidenzia in uno studio pubblicato su Scientific Reports in collaborazione tra l’Istituto di Medicina Molecolare di Lisbona e l’Inserm di Lille (Francia) che dimostra che la caffeina antagonizza specifici recettori adenosinici, gli A2A, iperespressi in presenza di decadimento cognitivo.

Per la presenza di importanti quantità di caffeina i pediatri raccomandano di non dare caffè ai bimbi sotto i 12 anni, nei quali può provocare comportamenti iperattivi, diminuzione dell’appetito, difficoltà ad addormentarsi, palpitazioni, tachicardia ed enuresi notturna. Dopo i 12 anni è permessa una tazzina al giorno, ma non di sera perché potrebbe provocare disturbi del sonno.

Il contenuto di caffeina nella tazza varia in funzione della modalità di preparazione. Ma, come si vede dalla tabella, questa differenza può essere azzerata o addirittura invertita dalla quantità di bevanda ingerita. 

CONTENUTO DI CAFFEINA PER DOSE DI BEVANDA
Espresso o moka40-80mg per tazzina
Caffè americano115-120 mg per tazza
Caffè istantaneo65-100 mg per tazza
Decaffeinato< 5mg per tazzina
Cappuccino70-80 mg per tazza
Cioccolata30-40 mg per barretta da 60gr.
40-50 mg per tazza
Bevande tipo cola35-50 mg per lattina
Bibite energetiche con caffeina o guaranà50-100 mg per lattina

Sebbene nel caffè americano la caffeina sia meno concentrata che nell’espresso, data la maggior quantità di bevanda che si ingerisce, alla fine la quantità assunta è maggiore nel primo. 

Nel caffè decaffeinato gli effetti benefici dei polifenoli rimangono, si perdono però gli effetti stimolanti sul SNC della caffeina.

Da notare che la capacità di metabolizzare la caffeina e regolata geneticamente e inoltre, essendo questa un induttore enzimatico, i suoi effetti siano sono molto differenti tra consumatori occasionali (maggiore frequenza di tremori, insonnia, nervosismo, insonnia) e abituali (dove gli effetti collaterali sono quasi assenti) perché la sua possibilità di essere eliminata dall’organismo aumenta con la frequenza del consumo.

Vediamo quali sono gli effetti del caffè sull’organismo:

1. Caffè e rischio patologie cardio-vascolari

Il caffè esercita un effetto protettivo non lineare rispetto al rischio di malattie cardiovascolari. In dettaglio, il rischio di patologie cardiovascolari è inferiore nei soggetti che consumano 3-5 tazze al giorno, rispetto ai non consumatori; il consumo di 6-10 tazze non aumenta il rischio cardiovascolare, ma oltre le 10 tazze giornaliere questo rischio aumenta.

Attenzione: il caffè fa aumentare la pressione arteriosa. Pertanto, gli ipertesi devono usarlo con parsimonia

2. Caffè e apparato gastro-intestinale

Le xantine contenute nel caffè hanno un effetto irritante sulla mucosa gastrica ed effetti inibitori sullo sfintere inferiore dell’esofago, il che accentua il reflusso gastroesofageo. Tuttavia, in positivo, il caffè esercita un ruolo protettivo sulla permeabilità della barriera intestinale grazie all’azione positiva sul microbiota, soprattutto nel caso di una dieta ricca in grassi. 

3. Caffè e salute del fegato

Contrariamente a quanto si crede, il caffè nero protegge il fegato. Bere due tazze supplementari di caffè al giorno comporta una riduzione del 44% del rischio di sviluppare cirrosi epatica di qualsiasi natura (da virus, alcol, steatosi, ecc.). 

4. Caffè e diabete mellito

L’analisi di numerosi studi sul rapporto tra caffè e diabete pubblicata come review dal titolo “Coffee consumption and reduced risk of developing type 2 diabetes: a systematic review with meta-analysisha evidenziato che il consumo di caffè – sia decaffeinato che con caffeina – riduce il rischio di sviluppare diabete di tipo 2 di circa il 30%. Una relazione di notevole interesse, vista la crescente diffusione mondiale della malattia, associata a numerose complicanze ad alto impatto economico e sociale sia sull’individuo che sul sistema sanitario. In questa pubblicazione sono stati analizzati 30 studi scientifici su una popolazione complessiva di oltre 1,2 milioni di persone per meglio comprendere come il consumo di caffè influisca sullo sviluppo del diabete di tipo 2 e delle complicanze ad esso associate. L’associazione risulta essere dose-dipendente: il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2 diminuirebbe, rispettivamente, del 7% (in caso di caffè con caffeina) e del 6% (in caso di caffè decaffeinato) per tazza al giorno. In particolare, la riduzione del rischio di diabete di tipo 2 di nuova insorgenza sembra essere leggermente maggiore con il caffè non decaffeinato. I meccanismi biochimici della bevanda che intervengono sul rischio di diabete di tipo 2 sembrano essere legati alle sostanze antiossidanti contenute nel caffè in grado di ridurre lo stress ossidativo, associato, oltre che a numerosi effetti avversi sulle funzioni cardiovascolari, metaboliche e renali, anche all’insorgenza di diabete di tipo 2.

5. Caffè, demenze (Alzheimer) e malattie neurodegenerative

Già in passato alcuni lavori avevano dimostrato le proprietà del caffè nel potenziare la memoria a lungo termine (ad esempio una ricerca pubblicata su Nature Neuroscience nel 2014). Più recentemente, i risultati di uno studio pubblicato sulla rivista The Journal of Gerontology, suggeriscono che circa tre caffè (espresso) al giorno (pari a un consumo di circa 261 milligrammi di caffeina) potrebbero proteggere dalla demenza. Rispetto a chi consuma non più di 64 milligrammi di caffeina al giorno (che grosso modo è pari a un espresso – il cui contenuto in caffeina varia da 47 a 75 mg – o a metà di una caffettiera da due tazzine di moka) – coloro che ne consumano 261 milligrammi al giorno presentano un rischio di ammalarsi di demenza o di deficit cognitivo ridotto del 36%.

Un consumo moderato di caffè in età adulta sembra incidere positivamente sulle demenze, tra cui l’Alzheimer. 

6. Caffè, salute mentale e disordini psichiatrici

Il caffè sembra influire positivamente anche su salute mentale e disordini psichiatrici, diminuendo i sintomi depressivi e il rischio di suicidi, in particolare nelle donne. Effetto che sembra attribuibile alla caffeina.

7. Interazione caffeina-farmaci

La caffeina amplifica l’attività di alcuni farmaci per la cura dell’asma (broncodilatatori). In secondo luogo, provocando un aumento della frequenza cardiaca, interagisce negativamente con alcune terapie antipertensive. Può inoltre interagire negativamente con alcuni farmaci per la cura l’insonnia.

Alcuni antibiotici, poi, incrementano il livello di caffeina in circolo nell’organismo. In questi casi sarebbe opportuno ridurre la quantità ingerita nell’arco della giornata.

La caffeina interagisce anche con alcuni farmaci utilizzati in ambito psichiatrico, aumentando il rischio di effetti collaterali.

Infine, il caffè interferisce con l’assorbimento della levotiroxina

8. Il caffè NON serve per dimagrire

Il caffè non serve per dimagrire. Ad alte dosi, può anche portare perdita di peso ma per una condizione patologica di iperattività e ipermetabolismo, e comporta il rischio di gravi effetti collaterali.

9.Il caffè e lo sport. 

Una review pubblicata nel 2019 suggerisce che l’assunzione di caffeine migliora le performance sportive in un’ampia gamma di attività, sebbene quelle a trarne il maggior beneficio sono quelle aerobiche. Gli effetti ergogenici sono evidenti sulla resistenza e forza muscolare, sulla potenza anaerobica e sull’endurance aerobica.   

INTOLLERANZA AL LATTOSIO: LA VERA DIMENSIONE DEL PROBLEMA

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

L’intolleranza al lattosio viene spesso confusa con l’allergia al latte, ma si tratta di due fenomeni molto diversi tra loro. L’allergia è più frequente in età infantile e la sua frequenza diminuisce con l’età, mentre la maggior parte (~il 70%) della popolazione mondiale non esprime, in età adulta, l’enzima (lattasi) necessario per idrolizzare il lattosio, e quindi digerire questo zucchero nei due monosaccaridi che lo compongono, il glucosio e il galattosio, e questa carenza dà origine all’intolleranza al lattosio.

La lattasi non è un enzima costitutivamente espresso in abbondanza nel piccolo intestino dei mammiferi. Il neonato umano, ad esempio, possiede livelli molto bassi di lattasi. Questo fatto non deve sorprendere: le madri non producono infatti latte a partire dal primo giorno. La sua produzione inizia dal secondo giorno (con circa 50 ml), aumentando gradualmente di 50 ml/die in parallelo con l’aumento dell’espressione di lattasi nell’intestino del neonato (durante i primi 2 giorni il fabbisogno energetico del neonato è coperto dall’autofagia del tessuto embrionale non più necessario).

La maldigestione del lattosio da parte degli adulti, dovuta all’assenza di lattasi è quindi molto frequente, e rappresenta la norma tranne che in Nord Europa o in Nord America, dove il fenotipo mutante della persistenza della lattasi in età adulta è al contrario la situazione più diffusa.

Perché si possa parlare di intolleranza al lattosio, tuttavia, debbono essere presenti sintomi specifici associati al consumo di lattosio, conseguenti alla fermentazione batterica del lattosio non digerito che raggiunge il colon. La carenza di lattasi comporta la “maldigestione” del lattosio, che di conseguenza porta al suo “malassorbimento”. Solo quando il malassorbimento del lattosio dà origine a dei sintomi (dolori addominali, gonfiore, diarrea ecc.) allora siamo in presenza di “intolleranza” al lattosio. Il malassorbimento del lattosio può essere diagnosticato facendo ingerire una dose standard (25 gr) di lattosio a digiuno e misurando poi l’idrogeno espirato (breath test): elevati livelli di idrogeno nel respiro sono causati dalla fermentazione batterica del lattosio non digerito. Altri strumenti di diagnostica includono la misurazione dell’attività della lattasi in un campione di biopsia intestinale o test genetici per il polimorfismo comunemente legato alla non-persistenza della lattasi, ma queste ultime metodiche diagnostiche non hanno un grande valore nella pratica clinica. In ogni caso può essere poco indicativo anche il breath test al lattosio se durante l’esame non vengono valutati i sintomi del paziente ma ci si affida esclusivamente alla comparsa del picco di idrogeno espirato come purtroppo invece accade abitualmente. Questo dato indica un malassorbimento e non necessariamente uno stato di intolleranza. Viceversa, molti pazienti riferiscono comparsa di sintomi durante l’esame in assenza di una evidenza di malassorbimento. Questo a dimostrazione del fatto che la semplice associazione tra ingestione del lattosio e comparsa dei sintomi porta troppo spesso all’erronea autodiagnosi. Infatti, spesso i sintomi sono una conseguenza della presenza di una sindrome dell’intestino irritabile o di una allergia alle proteine del latte o di una avversione psicologica agli alimenti contenenti lattosio piuttosto che di una vera intolleranza al lattosio.

Dimostrare un malassorbimento di lattosio non indica pertanto che l’individuo in questione svilupperà necessariamente i sintomi e quindi una intolleranza.

Molte variabili determinano se una persona che assorbe male il lattosio riporterà sintomi: tra queste la dose di lattosio ingerita, l’attività residua della lattasi intestinale, la co-ingestione di cibo con il lattosio, la capacità del microbiota intestinale di fermentare lattosio, e la sensibilità individuale ai prodotti di fermentazione del lattosio.

Molte persone attribuiscono erroneamente i sintomi di diversi disturbi intestinali all’intolleranza al lattosio, senza eseguire un test specifico. Questo equivoco diventa intergenerazionale quando i genitori con intolleranza al lattosio auto-diagnosticata mettono i loro bambini a dieta senza lattosio (anche in assenza di sintomi) nella convinzione che i bambini svilupperanno sintomi se viene loro dato lattosio. Tra le persone con diagnosi certa di intolleranza al lattosio, diversi fattori tra cui l’attività residua della lattasi, la velocità di svuotamento gastrico, la formazione di metaboliti batterici fecali, la capacità di assorbimento attraverso la barriera epiteliale e il tempo di transito intestinale possono modificare anche notevolmente la suscettibilità allo sviluppo di sintomi di intolleranza dopo l’ingestione di alimenti e di bevande contenenti lattosio. 

Gli individui con malassorbimento di lattosio possono tollerare grandi quantità di lattosio se ingerito con i pasti e distribuito durante l’arco di tutta la giornata. Alcuni dati suggeriscono che l’ingestione frequente di lattosio aumenta la quantità di lattosio tollerabile sia dagli adulti sia dagli adolescenti. In ogni caso è importante tenere presente che non trattandosi di una allergia ma di una intolleranza, nei casi realmente diagnosticati si è di fronte a una condizione nella quale i sintomi sono dose-dipendenti e pertanto piccole quantità (come quelle che sono rappresentate dagli eccipienti di compresse e farmaci) non possono mai dare origine alla sintomatologia, mentre invece accade spesso che i pazienti consapevoli di una loro intolleranza sospendono autonomamente una terapia o rifiutano l’assunzione di un determinato farmaco a loro prescritto. Se si considera che la quantità di lattosio utilizzata nel breath test per fare diagnosi di intolleranza è di 25g mentre la quantità di lattosio presente in un bicchiere di latte o in un vasetto di yogurt o in 100g di ricotta non supera i 5g è facile comprendere come spesso i sintomi che compaiono durante l’esecuzione del test, difficilmente si manifestano con l’assunzione abituale dei cibi che contengono il lattosio. Pertanto, molto spesso un paziente con diagnosi di intolleranza al lattosio potrebbe tranquillamente consumare con moderazione alimenti utili alla salute contenenti lattosio dei quali invece si priva sulla base dei risultati del test. Va sottolineato che l’assunzione del lattosio in un soggetto intollerante non causa nessuna patologia o danno al di fuori dei sintomi che la carenza di lattasi è in grado di generare. 

L’uso di latte delattosato e/o di prodotti lattiero caseari a basso tenore di lattosio permette l’assunzione di tutti quei  macro- e micronutrienti in essi contenuti senza incorrere nei disturbi gastrointestinali conseguenti la carenza di lattasi.      

In conclusione, la condizione di intolleranza al lattosio consiste nella presenza di un malassorbimento sintomatico. Spesso viene diagnosticata (o peggio autodiagnosticata) con troppa facilità senza che siano state valutate con attenzione le varie diagnosi differenziali. La carenza dell’enzima non deve automaticamente indurre a eliminare dall’alimentazione latte e derivati in quanto questi alimenti apportano nutrienti molto importanti alla nostra salute. Nei soggetti con diagnosi certa è fondamentale individuare la quantità necessaria a stimolare i sintomi e provare a garantire una alimentazione completa rimanendo al di sotto di tale soglia di lattosio. È importante ricordare che i formaggi stagionati e lo yogurt non contengono lattosio in quantità sufficienti a determinare la comparsa della sintomatologia del paziente e che esistono latti delattosati e anche prodotti a base di lattasi che possono essere utilizzati per non rinunciare al latte e ai formaggi freschi.

CONOSCERE GLI ALIMENTI PER UN CORRETTO ABBINAMENTO A TAVOLA

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Chi vuole essere attento alla propria alimentazione e cerca alimenti salutari e genuini per poter seguire un regime alimentare sano e “preventivo” non si deve mai dimenticare che abbinare in modo corretto gli alimenti rappresenta una condizione importante per non rischiare di vanificare le proprie scelte. Gli abbinamenti alimentari possono condizionare gli effetti sull’assorbimento e sul metabolismo dei nutrienti sia in senso positivo che in senso negativo.

Iniziamo sfatando uno dei miti più radicati nelle credenze popolari, ovvero quello che porta a credere che non si possano associare carboidrati e proteine. Per smentire questo mito basterebbe pensare che gli alimenti che mangiamo più frequentemente e che rappresentano la base della dieta mediterranea, mi riferisco ai cereali, sono naturalmente composti da zuccheri e proteine insieme. Inoltre, nessuno ha mai dimostrato che fare una dieta dissociata, separando i carboidrati dalle proteine possa avere alcun benefico per la salute. Nella pasta il 12-15% dei nutrienti è rappresentato dalle proteine e quindi anche la pasta mangiata da sola non può essere considerata “carboidrati senza proteine”. 

Per rimanere sui cereali possiamo affermare che uno degli abbinamenti più classici e salutari è quello rappresentato dall’unione tra pasta e fagioli oppure tra riso e piselli. Infatti, le proteine vegetali sono in genere carenti di alcuni aminoacidi essenziali, ma abbinando pasta e legumi si mescolano proteine carenti di un aminoacido essenziale come la lisina (scarso nella pasta ma abbondante nei legumi) con altre (quelle dei legumi) che lo contengono ma sono carenti di metionina a sua volta abbondante nelle proteine della pasta.

Un altro esempio positivo riguarda l’abbinamento dell’ananas o della papaia con le carni, in quanto la presenza della bromelina (enzima proteolitico) in quel tipo di frutta può favorire la digestione delle proteine. Sempre in ambito di combinazione virtuosa troviamo quella del limone, dell’arancia o del kiwi con la carne perché la presenza abbondante di vitamina C in questi frutti trasforma il ferro della carne dalla forma ferrica a quella ferrosa, più biodisponibile e quindi aiuta a migliorare l’utilizzo di questo importante minerale necessario per prevenire e curare varie forme di anemia.

Gli abbinamenti positivi non si fermano qui. Cosa c’è di più naturale di condire un pomodoro con l’olio extravergine di oliva? Il pomodoro contiene dei carotenoidi e in particolare il licopene con eccezionali proprietà antiossidanti. L’olio, da parte sua è il miglior grasso da condimento perché ha una composizione in acidi grassi che aiuta a ridurre il colesterolo cattivo e ad aumentare quello buono oltre a contenere un altro antiossidante straordinario che è la vitamina E. Messi insieme, olio e pomodoro potenziano il loro effetto; infatti, il licopene è liposolubile e quindi il suo assorbimento aumenta notevolmente in presenza di grassi come l’olio. In modo analogo, il pesce, soprattutto quello azzurro essendo ricco in omega 3, grassi molto utili e salutari, può essere un alimento che facilita l’assorbimento di alcune vitamine liposolubili come la A, la D, la E, e la K e di conseguenza le migliori associazioni potrebbero essere quelle che lo vedono abbinato con pomodoro, carote, rosso d’uovo e formaggi.

Ricordiamo anche che non c’è nessun motivo per non associare proteine vegetali con proteine animali ma anzi, per le loro differenti composizioni in aminoacidi, il nostro organismo necessita di entrambe in una proporzione equivalente, e quindi possiamo tranquillamente mangiare un panino con il formaggio oppure, una bistecca con i piselli senza alcun timore.

Ci sono invece alcuni abbinamenti che sono controproducenti. Ci sono infatti alcuni alimenti come i legumi (in particolare i fagioli ma anche la soia) che contengono molti fitati, sostanze che si legano ad alcuni minerali come, per esempio, il calcio e il ferro impedendone il loro assorbimento. Quindi attenzione all’abbinamento dei legumi con i formaggi o latticini soprattutto per chi soffre di osteoporosi o anemia perché è in grado di ridurre l’assorbimento di questi nutrienti. Quindi chi cerca i benefici del calcio mangiando formaggi, o del ferro, consumando la carne dovrebbe avere l’accortezza di non mangiare questi alimenti insieme ai legumi. 

Un discorso analogo riguarda alcune verdure come spinaci, bietola, pomodoro e sedano (oltre che di nuovo i legumi). Questi ortaggi contengono molti ossalati  che in modo simile ai fitati si legano con facilità a sali minerali come calcio, zinco e selenio interferendo in modo consistente nella loro biodisponibilità e quindi nella possibilità di utilizzo da parte dell’organismo.

Esistono, inoltre, alcune condizioni patologiche dove fare attenzione agli abbinamenti diventa molto importante per ridurre l’impatto negativo dell’alimentazione sui sintomi. Per esempio, per chi soffre di sindrome dell’intestino irritabile gli abbinamenti da evitare sono la birra con la pizza (perché si sommano gli effetti di una probabile difficoltà alla digestione degli amidi con il gas della birra) oppure le patate con i legumi. Sia le patate che i legumi contengono amidi e zuccheri difficilmente digeribili oltre a sostanze come le lectine e agglutinine che rendono difficoltoso l’assorbimento delle proteine. Infine, la presenza di inibitori delle proteasi nei legumi può ostacolare il lavoro degli enzimi digestivi e quindi consumarli insieme ad alimenti ricchi di proteine potrebbe facilmente creare problemi a chi soffre di sindrome dell’intestino irritabile.  

Chi soffre di emicrania dovrebbe evitare di abbinare vino e formaggio perché entrambi possono scatenare una crisi di cefalea, mentre per chi soffre di gonfiore addominale questo abbinamento può favorire la produzione di gas intestinale soprattutto se questi alimenti vengono consumati in un pasto ricco di brassicacee (cavoli, broccoli e cavolfiore). 

Chi è affetto da malattia da reflusso gastroesofageo dovrebbe rinunciare a combinare cioccolato, menta e liquirizia per ridurre il rischio dei classici disturbi di acidità e bruciore. Anche mescolare bevande gassate e agrumi può dare origine ai sintomi.

Anche il sonno può essere influenzato da certi abbinamenti alimentari, alcuni in positivo e altri in negativo. Per esempio, combinare alimenti come vino, formaggio e cioccolato può essere controproducente per chi soffre di insonnia perché contengono tiramina, aminoacido precursore dell’adrenalina che ostacola le varie fasi del sonno.

Al contrario, il latte nell’intestino di alcuni individui può dare origine alla comparsa delle casomorfine, sostanze che possono conciliare il sonno soprattutto se abbinate agli zuccheri o ad alimenti che contengono triptofano (precursore della serotonina) come le uova, le nocciole, le arachidi, i legumi o il pesce, o ad altri che contengono melatonina come funghi, semi di girasole e avena.

E alla fine arriva la frutta. Ma è vero che mangiata a fine pasto fa male alla salute? Sebbene non ci sia nessun fondamento scientifico per sconsigliare la frutta a fine pasto ci sono due situazioni nelle quali è meglio evitarla. 1) in una dieta dimagrante, perché togliendola dopo il pasto costa meno fatica avendo meno fame, e spostandola a metà mattina e a metà pomeriggio si aggiungono due spuntini quando se ne sente di più il bisogno senza aumentare l’apporto calorico. 2) in corso di “post prandial distress” condizione patologica nella quale è presente un rallentato svuotamento gastrico che si traduce in difficoltà a digerire e pesantezza di stomaco dopo mangiato.

CORRETTE PORZIONI E FREQUENZE DI CONSUMO

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Quando si parla di alimentazione ci si ferma abitualmente al concetto legato al tutto o niente. Ovvero un alimento “fa bene” o “fa male” in base a stereotipi generici o appartenenti all’immaginario collettivo e raramente ci si addentra nella complessità dell’argomento. Non esistono in realtà alimenti “buoni” o “cattivi” ma esiste il concetto di proporzionalità come suggerito egregiamente dalla grafica della piramide della dieta mediterranea (figura 1) dove appare chiaro che non esiste una discriminazione in termini di scelte di alimenti ma quello che deve guidare le logiche di una sana alimentazione sono ispirate alla proporzionalità e alla frequenza di consumo di alcuni cibi rispetto ad altri.

Sia i LARN (livelli di assunzione di riferimento) (1) che le Linee Guida italiane per una sana alimentazione (2) hanno chiarito dettagliatamente come le porzioni e le frequenze di consumo rappresentino l’obiettivo principale di insegnamento in una corretta campagna di educazione alimentare. I LARN definiscono porzione standard la quantità di alimento che si assume come unità di riferimento riconosciuta e identificabile sia dagli operatori del settore nutrizionale e sia dalla popolazione. La porzione standard deve essere coerente con la tradizione alimentare e di dimensioni ragionevoli, in accordo con le aspettative del consumatore. È una unità di misura di riferimento della quantità di alimento consumata e può essere espressa in unità naturali o commerciali effettivamente visualizzabili (ad es. frutto medio, fetta di pane, fetta di prosciutto, lattina, scatoletta ecc.) oppure in unità di misura casalinghe di uso comune (ad es. cucchiaio, mestolo, bicchiere, tazza ecc.). La porzione rimane comunque un concetto approssimativo e puramente indicativo sebbene molto importante. Una singola porzione può variare in funzione dell’esigenza calorica dell’individuo, della sua età, del suo sesso, della sua attività fisica, della soddisfazione personale, della sua sfera psicologica e della sua capacità organizzativa giornaliera. Pertanto, appare sbagliato considerare la porzione come un dogma insormontabile. Piuttosto, diventa opportuno considerare che un regime alimentare venga suggerito partendo da questo concetto di porzione per poi adattarsi alle singole esigenze individuali in modo da personalizzare il modello alimentare. Analogamente a questo concetto si esprime quello delle frequenze di consumo. Questo significa che una volta definita la porzione, diventa importante stabilire quante volte questa porzione può essere consumata in un giorno, o in una settimana, dal consumatore. A questo proposito, le linee guida per una sana alimentazione (2) hanno indicato le frequenze di consumo in base all’ammontare di differenti quote di calorie totali giornaliere assunte dal consumatore, cercando in questo modo di modulare e personalizzare l’assunzione degli alimenti in modo più congeniale alle reali necessità, sebbene, come abbiamo detto, l’apporto complessivo giornaliero rappresenta soltanto uno dei parametri da considerare in un’ottica di personalizzazione.

Ecco, quindi, che la scelta degli alimenti da utilizzare in una corretta dieta alimentare non deve tenere conto soltanto della composizione in macronutrienti (carboidrati, lipidi, proteine, fibre e acqua) o molecole bioattive (polifenoli, antiossidanti, fitosteroli, fitoestrogeni) o dell’apporto calorico perché, alla luce delle attuali conoscenze, sarebbe fortemente riduttivo se non andiamo oltre prendendo anche in considerazione il concetto di “quanto” e “quando” assumere gli stessi alimenti. 

Sappiamo che la dieta mediterranea non esalta un singolo alimento rispetto ad un altro, ma che al contrario valuta nel loro insieme la combinazione di vari alimenti e li associa ad un regolare svolgimento dell’attività fisica. Gli alimenti base della dieta mediterranea come sappiamo sono: frutta e verdura (apportano vitamine, sali minerali, polifenoli, antociani, acqua, fibra), cereali (carboidrati complessi e proteine), pesce (proteine di elevato valore biologico, omega 3, sali minerali), legumi (proteine di medio valore biologico, fibra, carboidrati complessi), olio (acidi grassi MUFA e PUFA, vitamine, polifenoli, molecole bioattive). Diciamo che questi sono gli alimenti base proprio perché sono quelli che devono essere consumati in maggior quantità (porzioni) e con maggior frequenza. Il concetto di porzione e frequenza permette peraltro di non escludere dalla dieta mediterranea anche gli altri alimenti, i cui consumi devono essere definiti anch’essi da porzioni e frequenze e mai esclusi. Ci riferiamo per esempio alle carni, ai prodotti dolciari e ai condimenti. Questo è molto importante perché l’aspetto edonistico, sociale, psicologico e conviviale del cibo rappresenta una dei cardini moderni della dieta mediterranea. I nutrienti apportati da questi altri alimenti sono altrettanto importanti per la salute (zuccheri, grassi, sali minerali ecc.) e il loro apporto in una corretta alimentazione è altrettanto valido ed opportuno se si rispettano anche per loro i concetti di porzione e frequenza. La proibizione immotivata non è salutare ma soprattutto non è necessaria. Anche la restrizione eccessiva può essere controproducente. Un recente report della commissione EAT Lancet suggerisce un progetto di dieta universale prendendo come riferimento la dieta mediterranea cercando di darle una veste di universalità per adattarla a tutti i paesi del mondo e genericamente a tutti gli individui andando in direzione opposta ai concetti di personalizzazione appena espressi.

Il problema di questo report sulla dieta universale è che dopo una banale e scontata dichiarazione di intenti e propositi, coraggiosamente suggerisce in modo particolareggiato le grammature dei singoli alimenti da ingerire da parte di ogni individuo. E qui non può che alzarsi una montagna di perplessità. Per fare qualche esempio. Si consiglia un consumo di 14 g al giorno di prodotti derivati dalla carne. Questo corrisponde a una piccola fettina di carne o una mezza bistecca a settimana. Il pesce, circa 200 g a settimana (una porzione), il pollo idem (una porzione a settimana) e le uova 2 a settimana (piccole però). Da sottolineare che non si tiene conto (e non sarebbe possibile farlo) delle enormi diversità tra giovani e anziani, sportivi e non, ecc.

Questa estremizzazione va probabilmente molto aldilà delle raccomandazioni della dieta mediterranea (che consiglia 1 o 2 porzioni, e non mezza, di carne rossa a settimana, più di due porzioni di pesce e di pollo e fino a 4 uova). Non ci sono evidenze che ridurre drasticamente questi alimenti sotto queste quantità porti dei vantaggi in termini di salute. Riducendo così tanto i prodotti di origine animale la commissione EAT si vede peraltro costretta, per garantire il fabbisogno proteico, ad aumentare in modo alquanto bizzarro le porzioni di cereali (232 g, ovvero 3 piatti di pasta al giorno) o di legumi (3 porzioni di 200 g a settimana, difficilmente tollerabili da chi soffre di colon irritabile o di gonfiore addominale) e di noci/mandorle (50 g al giorno per ben 300 calorie!) suggerendo un apporto calorico giornaliero di ben 2500 calorie! Diventa complicato combattere la piaga dell’obesità e promuovere la cultura dell’educazione alla riduzione dell’apporto calorico globale. Basterebbe essere meno ideologici e un po’ più pratici, e pensare che per avere 5 gr di proteine le noci apportano 300 calorie, mentre una porzione da 150 gr di merluzzo apporta ben 25 g di proteine con solo 100 calorie.  

In conclusione, possiamo affermare che una sana alimentazione si ispira alla varietà e alla diversità (2) e che la gamma di alimenti che offre la dieta mediterranea, il miglior modello scientificamente validato, consente di non escludere alcun alimento. Quello che invece deve essere tenuto in debito conto è il concetto di porzione e di frequenza di consumo, un criterio che deve essere basato, però, sull’idea di personalizzazione e non determinato da schemi ideologici. 

  Figura 1.           PIRAMIDE DELLA DIETA MEDITERRANEA

RIFERIMENTI

  1. https://sinu.it/wp-content/uploads/2019/07/20141111_LARN_Porzioni.pdf
  2. https://www.crea.gov.it/documents/59764/0/LINEE-GUIDA+DEFINITIVO.pdf/28670db4-154c-0ecc-d187-1ee9db3b1c65?t=1576850671654
MANIPOLAZIONE DEGLI ALIMENTI E METODI DI COTTURA

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Quando analizziamo i benefici di una sana alimentazione e degli alimenti che la compongono prendiamo sempre in considerazione la composizione naturale degli stessi e gli effetti, benefici o nocivi che siano, che questi esercitano sullo stato di salute. Nella pratica quotidiana però, sia nella filiera produttiva che nella preparazione domestica dei piatti in cucina, gli alimenti possono subire modifiche anche consistenti del loro stato presente in natura. La trasformazione industriale degli alimenti deve soddisfare imprescindibili requisiti di sicurezza, conservazione, praticità, trasporto, distribuzione e palatabilità del prodotto affinchè il consumatore finale possa beneficiarne. Si tende sempre ad associare la manipolazione industriale degli alimenti a qualcosa di dannoso e negativo che può comportare esclusivamente perdita dei principi nutritivi e rischi per la salute. Ma è davvero così? Il livello di manipolazione di un alimento può essere valutato sulla base di classificazioni che misurano il grado di intervento nei processi di produzione del prodotto finale. La più nota è la classificazione NOVA (1).  Questa classificazione prevede quattro livelli di processazione:

  1. Cibi non trasformati o minimamente lavorati. Vi rientrano acqua, parti commestibili di piante (semi, frutti, foglie, steli, radici), funghi e alghe. Ma anche i prodotti di origine animale più semplici, come uova, latte, carni non lavorate.
  2. Ingredienti per la cucina domestica. Sono gli alimenti basilari per la preparazione e il condimento dei cibi. Oli e grassi, aceto e sale, zucchero, erbe aromatiche e spezie, etc. difficilmente si usano in assenza di alimenti del gruppo 1.
  3. Alimenti trasformati (processed food). Fanno parte di questo gruppo alimenti ottenuti con lavorazioni semplici. Pane, pasta, formaggi, carni e pesci nelle lavorazioni più semplici, conserve vegetali, verdure in lattina. Si trovano preparazioni con massimo 2 o 3 ingredienti.
  4. Alimenti ultraprocessati. Si tratta di preparati realizzati con più di 4 elementi e possono includere anche composti presenti negli alimenti minimamente trasformati come sale, grassi, oli, antiossidanti, conservanti, coloranti, dolcificanti e altri additivi per esaltare il sapore. Lo scopo di questi prodotti è quello di fornire piatti o bevande pronti per il consumo o semplici da riscaldare. Abitualmente sono oggetto di campagne di marketing e pubblicità. Esempi sono gli snack, barrette alimentari, piatti pronti, pizza o dolci precucinati, gelati preconfezionati, zuppe istantanee.

Sebbene esistano studi che sembrano mettere in correlazione gli alimenti del gruppo 4 (ultraprocessati) con una maggior rischio di patologie, siccome i processi di produzione di un alimento ultraprocessato sono così vari risulta impossibile e poco scientifico attribuire un’etichetta di non salubrità a tutti questi prodotti appartenenti a questa categoria al momento attuale. L’aggiunta di un additivo o la preparazione a monte di un alimento non necessariamente può essere collegata ad un rischio per la salute se non si tiene conto della qualità dell’alimento di partenza e del reale processo produttivo preso singolarmente. Per esempio, un trattamento ad alta temperatura può ridurre la presenza di qualche nutriente ma non necessariamente rende il prodotto pericoloso per la salute. Lo stesso si può dire per l’aggiunta di un conservante o per l’abbinamento di più alimenti nella preparazione di un piatto pronto. Vale poi sempre il discorso delle quantità, perché esistono alimenti che pur contenendo “naturalmente” sostanze pericolose il loro consumo abitualmente parsimonioso li rende estremamente sicuri. Un esempio è il basilico che, pur rientrando secondo la classificazione NOVA in classe 1 (naturale e pertanto considerato “sicuro”) contiene il metil eugenolo, sostanza possibilmente cancerogena secondo la classificazione IARC.

Anche i metodi di cottura influenzano i profili nutrizionali degli alimenti. Cucinare il cibo può presentare vantaggi (favorisce la sicurezza microbiologica, migliora la biodisponibilità di alcuni nutrienti come il licopene del pomodoro e la vitamina B dell’uovo, consente la digeribilità di amidi e proteine ecc.) o svantaggi (porta alla perdita di nutrienti e di vitamine termolabili e alla formazione di prodotti tossici in caso di alte temperature).

Quando prendiamo in esame un alimento valutiamo i nutrienti che abitualmente sono presenti al momento della raccolta in condizioni di piena stagionalità, della pesca o della macellazione, ma la cottura del prodotto modifica sostanzialmente la sua composizione o la disponibilità delle sostanze che contiene. Prendiamo per esempio la frittura. Anche quando rispetta i migliori criteri in termini di olio, durata, forma della padella e tempi di cottura, a causa delle alte temperature che si sviluppano in presenza dei grassi (presenti nell’olio o nel burro utilizzati o nell’alimento stesso) si verifica una reazione di perossidazione, con conseguente formazione di radicali liberi. Ecco che un pesce, ricco di omega 3 dagli effetti positivi, può trasformarsi in fonte di radicali liberi con la loro cattiva abitudine di “invecchiare” le cellule. Inoltre, se durante la frittura si raggiunge o supera il punto di fumo dell’olio o del burro si formano alcune sostanze come la acroleina, molto tossica per il fegato oltre che cancerogena. È dunque importante conoscere questa temperatura che è specifica per ogni tipo di olio o di burro, e come si può immaginare è più sicura quanto più alta essa sia perché più difficile da raggiungere. La frittura peraltro penalizza quasi tutte le verdure riducendo in modo rilevante il loro potere antiossidante, tranne cicoria, cavoletti di bruxelles, patate e carciofi (2).

Anche la cottura alla griglia della carne, a causa delle alte temperature, può favorire la denaturazione delle proteine e degli aminoacidi (rendendoli inutilizzabili), la formazione degli idrocarburi policiclici e la perossidazione dei grassi.

Gli zuccheri, con le temperature elevate, possono dare origine a sostanze  potenzialmente tossiche (come si verifica nella reazione di Maillard che dà origine alla crosta del pane e al suo profumo). Inoltre, alcune vitamine come la C e l’acido folico sono molto termolabili e con le cotture prolungate ad alta temperatura tendono a scomparire. Anche la maggior parte dei polifenoli sparisce con la cottura.

La cottura, d’altro canto, è indispensabile alla salute fondamentalmente perchè abbatte drasticamente il rischio di contaminazione degli alimenti da parte di batteri e funghi (basti pensare all’importanza della pastorizzazione, che consente il consumo del latte senza rischi di tubercolosi, brucellosi e altre infezioni).

Inoltre, la cottura permette la digestione da parte dei succhi gastrici di alimenti come la carne, il pesce, la pasta o il pane altrimenti inutilizzabili o potenzialmente pericolosi. Alcuni nutrienti, contrariamente a quanto si tenderebbe a credere, sono più facilmente utilizzabili dall’organismo dopo la cottura. Un esempio classico è rappresentato dalla vitamina B12 delle uova, che vede la propria biodisponibilità aumentare con la cottura grazie all’azione di quest’ultima nel favorire la scissione della vitamina dalla avidina, sostanza alla quale è legata.

Anche la biodisponibilità dei carotenoidi delle carote aumenta con la cottura perché questi si liberano della matrice che li lega. I carciofi grazie alle temperature della cottura aumentano di biodisponibilità di un carotenoide particolare, la luteina. 

La bollitura è il metodo che ne offre la maggiore disponibilità (quasi 10 volte di più) ma anche la frittura rende i carotenoidi dei carciofi più fruibili (4 volte di più). Per i broccoli invece la cottura non offre alcun vantaggio, anzi determina una perdita importante della vitamina C presente in abbondanza nel prodotto fresco.

Le antocianine e i flavonoidi in genere si perdono con la cottura. Il riso rosso può arrivare a perderne l’80% con la cottura a pressione.

Come possiamo vedere non esiste un metodo ottimale di cottura. La cottura degli alimenti in termini generali è molto utile per la salubrità e la digeribilità dell’alimento e dovrebbe riguardare prevalentemente i prodotti di origine animale. In questo caso cerchiamo di privilegiare le cotture a bassa temperatura e di breve durata. I prodotti vegetali invece tendono a dare il meglio per la nostra salute se consumati crudi anche se abbiamo visto non essere una regola.

Bibliografia

  1. Monteiro CA, Cannon G, Levy RB et al. NOVA. The star shines bright.
    Food classification. Public health] World Nutrition January-March 2016, 7, 1-3, 28-38 World Nutrition Volume 7, Number 1-3, January-March 2016 
  2. Pellegrini N, Miglio C, Del Rio D, Salvatore S, Serafini M, Brighenti F. Effect of domestic cooking methods on the total antioxidant capacity of vegetables. Int J Food Sci Nutr. 2009;60 Suppl 2:12-22. doi: 10.1080/09637480802175212. 
BUONE PRATICHE PER EVITARE GLI SPRECHI ALIMENTARI 

Prof. LUCA PIRETTA

Gastroenterologo e Nutrizionista

 Università Campus Biomedico di Roma

Cosa intendiamo quando parliamo di sprechi alimentari? Per il Ministero della Salute, si definisce spreco alimentare “l’insieme dei prodotti scartati dalla catena agroalimentare, che per ragioni economiche, estetiche o per la prossimità della scadenza di consumo, seppure ancora commestibili e quindi potenzialmente destinati al consumo umano, sono destinati ad essere eliminati o smaltiti” Il Waste Watcher, International Observatory on Food & Sustainability nel suo action program (WRAP), includendo anche porzioni di cibo non commestibili (come risulta anche nella direttiva 2018/851 dell’Ue), distingue il food waste in:

  • evitabile (cibo e bevande finiti in spazzatura ma ancora edibili, come pezzi di pane, mele, carne, ecc.)
  • possibilmente evitabile (cibo e bevande che alcune persone consumano, per esempio le croste del pane, e altre persone no; ma anche il cibo che può essere consumato se cucinato, per esempio la buccia di patate)
  • inevitabile (ossi di carne, bucce d’uovo, d’ananas ecc.).

I numeri dello spreco in Italia sono impressionanti. Secondo una indagine pubblicata sul Corriere della Sera nel 2023 ogni anno in Italia vengono sprecati 8.65 milioni di tonnellate di cibo (1) con il 73% che si verifica in casa pari ad una perdita di 385 euro per ogni cittadino. 

Oggi circa un terzo del cibo prodotto in tutto il mondo viene sprecato. Si tratta di oltre 1,6 miliardi di tonnellate, a fronte delle 5,3 disponibili. Si stima che, salvando appena un quarto del cibo che diventa rifiuto alimentare, si potrebbe riuscire a nutrire a sufficienza coloro che soffrono la fame: 828 milioni di persone (+5,6% rispetto al 2020 e +22,1% rispetto al 2019).

Vediamo quali sono le principali cause dello spreco alimentare.

  1. Insufficiente pianificazione della spesa alimentare
  2. Attività promozionali commerciali (per esempio paga uno e prendi due)
  3. Confusione tra data di scadenza e termine minimo di conservazione (da consumarsi preferibilmente entro…)
  4. Scarsa dimestichezza nella preparazione dei cibi
  5. Scarsa praticità delle confezioni (difficilmente svuotabili o troppo grandi)
  6. Giudizio sbagliato dell’aspetto estetico dell’alimento
  7. Porzioni standard e poco adatte a tutti i consumatori
  8. Scarsa capacità di prevedere il numero dei consumatori (soprattutto nella ristorazione collettiva) in particolare per prodotti stagionali
  9. Difetti di packaging
  10. Inadeguata conservazione (soprattutto a livello domestico) o trasporto (mancato rispetto della catena del freddo)
  11. Mancata consapevolezza del rischio e dei costi dello spreco alimentare e del valore del cibo
  12. Vita frenetica e scarsa programmazione alimentare domestica

Come si può osservare oltre ad alcune cause legate al packaging o a previsioni di consumo su larga scala, la maggior parte delle cause dello spreco alimentare avviene in ambito domestico e appare evidente come una corretta campagna di educazione e consapevolezza potrebbe avere un impatto enorme sulla riduzione degli sprechi alimentari. A livello collettivo il Ministero della salute nel 2016, in condivisione con le Regioni e province autonome, ha elaborato delle linee guida per limitare gli sprechi nelle mense scolastiche e aziendali (2). Tutti gli attori devono svolgere il loro ruolo nel tentativo di ridurre lo spreco alimentare, dai produttori a chi processa gli alimenti, ai consumatori e alle autorità regolatorie e di sorveglianza.  Il Ministero della Salute ha stilato un elenco di consigli volti a ridurre lo spreco (3) che partono dalla pianificazione dei pasti prima di fare la spesa così da andare al supermercato con un programma studiato, in modo da limitare le improvvisazioni che possono più facilmente condizionare gli acquisti in base all’appetito, alle offerte, alle presentazioni pubblicitarie accattivanti e alle modalità di presentazione sugli scaffali. È fondamentale, al momento dell’acquisto, leggere le etichette per valutare la previsione dei consumi in funzione delle scadenze dei prodotti. Arrivati a casa, una regola da seguire con molto rigore è quella di disporre correttamente in frigorifero o nella dispensa gli alimenti appena acquistati seguendo una certa razionalità. Questo significa non solo collocare gli alimenti nei ripiani e nei comparti dedicati per garantire una corretta conservazione in base alle differenti temperature, ma cercando di mettere davanti, in prima vista, gli alimenti più vicini alla data di scadenza e gli altri, appena acquistati, dietro. Il consumatore deve prestare molta attenzione alla differenza tra “data di scadenza” che indica il limite oltre il quale il prodotto non deve essere consumato, e “termine minimo di conservazione” che indica che il prodotto, oltre la data riportata, può subire modifiche di alcune caratteristiche organolettiche come il sapore e l’odore ma può essere consumato senza rischi per la salute. Deve inoltre adottare l’accortezza, nel caso di utilizzo di confezioni non richiudibili, di riporre gli alimenti avanzati in contenitori ermetici per mantenere la freschezza e le proprietà organolettiche più a lungo possibile, garantendo inoltre un certo isolamento così da evitare di trasferire o ricevere odori da altri alimenti conservati in prossimità. La frutta e la verdura vanno tenute in bella vista e quando cominciano a mostrare segni di “invecchiamento” possono essere usate per preparare frullati, minestroni, zuppe o torte (dolci o salate). Infine, è importante che il consumatore usi tutta la sua fantasia per preparare ricette che possano sfruttare al massimo gli alimenti conservati prima che perdano la loro fragranza e soprattutto tenendo conto delle porzioni che intende preparare analizzando se tra i commensali ci siano bambini, anziani o persone inappetenti o a dieta per qualunque motivo (di salute o per dimagrire). A volte anche solo osservare i rifiuti prodotti in casa può sensibilizzare il consumatore e renderlo più consapevole dei suoi sprechi alimentari.

Referenze

  1.   Sprechi alimentari, a ogni italiano costano 385 euro all’anno
  2.   Linee di indirizzo rivolte agli enti gestori di mense scolastiche, aziendali, ospedaliere,  sociali  e  di comunità, al fine di prevenire e ridurre  lo  spreco  connesso  alla somministrazione  degli  alimenti
  3.   Regole utili

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