Comunicato di giovedì 6 novembre 2008
 

1983 – 2008: I 25 ANNI CHE CAMBIARONO IL MODO DI FARE LA SPESA DA PARTE DEGLI ITALIANI

 

Uno studio realizzato da Federalimentare in occasione del 25° anniversario dalla sua nascita fotografa l’evoluzione della “spesa” alimentare degli italiani dal 1983 a oggi.

Uno studio realizzato da Federalimentare in occasione del 25° anniversario dalla sua nascita fotografa Cresce di 5 volte il numero dei supermercati e di 30 volte quello degli ipermercati, mentre la quota del budget familiare destinato alla spesa alimentare scende dal 26,1% al 17,7%.
E se ieri il mangiare fuori casa assorbiva una quota di appena il 16% del budget alimentare, oggi invece pranzi e cene al bar e al ristorante coprono il 32% della spesa complessiva (+100%)

Venticinque anni che hanno visto cambiare l’industria alimentare, ma anche il modo di mangiare e di acquistare da parte degli italiani.
In questo arco di tempo il fatturato del comparto alimentare è passato dai 50 miliardi di euro del 1983 ai 120 miliardi di euro del 2008. L’export si è quasi triplicato passando dai 7 miliardi di euro del 1983 ai 20 miliardi di euro del 2008, mentre il numero delle imprese alimentari è salito da 5.800 a 6.500.
Cambia anche la tipologia del cibo che portiamo in tavola, cambia la quantità e la qualità delle calorie che ingeriamo, facciamo la spesa in posti diversi, mangiamo molto di più fuori casa….
Partendo dalla consapevolezza dei grandi cambiamenti intercorsi in questa manciata di anni Federalimentare - la Federazione italiana dell’Industria alimentare – per festeggiare il suo primo quarto di secolo di vita ha voluto scattare due fotografie che mettono a confronto la “spesa alimentare” degli italiani nel 1983 e nel 2008.

1983: GLI ITALIANI SPENDONO MOLTO PER CARNE E BEVANDE ALCOLICHE
Nel 1983 la spesa delle famiglie italiane per consumi alimentari domestici ammonta a circa 104.498 miliardi di lire (che equivalgono, attualizzando i valori, a circa 142 miliardi di euro) con un’incidenza della spesa alimentare sul totale dei consumi delle famiglie del 26,1%.
Se l’84% della spesa alimentare era riservata ai consumi casalinghi, il 16% era appannaggio di quelli extradomestici, che cominciavano a crescere rispetto agli anni 70. Gli italiani infatti riscoprono l’ottimismo, la voglia di viaggiare e il piacere di uscire a cena al ristorante: comincia a nascere un’eccellente ristorazione “gourmet”, guidata da grandi chef che salgono anche alla ribalta dei media.
Ma cosa mangiavano gli italiani nel 1983? Nel loro “frigorifero” non mancava mai la carne: un simbolo gastronomico dell’epoca, la prima voce di spesa del “paniere alimentare” con un peso pari a 33,6% del totale. Al secondo posto la spesa per frutta e verdura (18,6%), a seguire latte, formaggi e uova ( 13,1%). Pane, pasta e altri cereali coprivano il 10,7% della spesa. Più indietro trovavamo oli e grassi (5,2%), seguiti da zucchero, marmellata, sciroppi, cioccolata e pasticceria (4,3%). Poco lo spazio destinato al pesce (3,2% nel paniere). Infine all’ultimo posto figuravano caffé, te e cacao (2,3%).
Se nel paniere della spesa i generi alimentari inglobavano il 91,3% dei consumi alimentari, le bevande si attestavano all’8,7%. Analizzando quest’ultima categoria scopriamo che la quota di spesa destinata alle bevande alcoliche (85%) era nettamente superiore a quella per bevande analcoliche (15%).
Se spostiamo la “lente” dalle scelte alimentari agli aspetti nutrizionali legati al cibo, ci accorgiamo che la crescita quantitativa e il miglioramento qualitativo dei consumi alimentari portarono in alto il conteggio delle calorie: dalle 2.546 giornaliere (a persona) dei primi anni 50 (a quel tempo in alcune zone d’Italia si pativa ancora la fame..) alle circa 3.000 del 1983. Mentre oggi - anche grazie ad una razionalizzazione del paniere della spesa alimentare degli italiani legata ad una più matura gestione della dieta - si è arrivati ad un intake calorico giornaliero di circa 2.200 calorie.

I CANALI DI VENDITA TRA DOMINIO DEL “NEGOZIO DI VICINATO” E SVILUPPO DEI “SUPERMERCATI”
Elevatissimo numero di punti di vendita e insufficiente forma di distribuzione moderna: si presenta cosi il commercio alimentare al dettaglio nel 1983.
Con 1.578 supermercati (3 ogni 100.000 abitanti), l’Italia era solamente quinta nella classifica europea della distribuzione moderna (al primo posto la Germania Federale con 6.820, al secondo la Francia con 4.665, al terzo la Gran Bretagna con 3.651, al quarto posto i Paesi Bassi con 1.705).
Ancor più indicativo dell’arretratezza del sistema distributivo nazionale era il numero degli ipermercati: nel 1983 erano soltanto 17 (0,03 ogni 100.000 abitanti). Basti pensare che anche la piccola Austria possedeva un numero di ipermercati triplo rispetto al nostro (ben 53), mentre risultavano lontanissimi, e irraggiungibili, gli altri paesi europei.
Nonostante questo gap con il resto d’Europa, all’inizio degli anni 80 s’inizia a registrare in Italia un concreto sviluppo della GDO rispetto al decennio precedente. Soprattutto grazie ai supermercati che dal 1971 al 1983 triplicano le unità di vendita (1.578 contro 609). Più moderata invece la crescita degli ipermercati che, dal 1981 al 1983, passano dalle 12 alle 17 unità.
L’altro volto del commercio alimentare al dettaglio è rappresentato dai 195.000 “negozi tradizionali specializzati”, dove vengono vendute la quasi totalità di ortaggi, verdure, frutta, patate e pesce fresco. I negozi di “vicinato” (macellerie, pescherie, frutterie, panetterie) debbono il loro successo alla presenza nei consumi alimentari italiani di prodotti freschi o di trasformazione artigianale, per i quali a quei tempi il consumatore tende a ricercare nel “dettagliante di fiducia” una forma di garanzia in fatto di qualità e freschezza degli alimenti.
Un’ultima considerazione va invece fatta sull’elevata, quanto anomala, presenza in Italia di negozi “despecializzati”, detti “grocery”, corrispondenti alle nostre salumerie. L’offerta di tali negozi era infatti tipicamente costituita da una vasta gamma di prodotti trasformati, per i quali da tempo l’industria alimentare di marca si era sostituita al negoziante nella posizione di garante della qualità.
Una presenza che risalta con tutta l’evidenza dai dati di raffronto internazionali, che mostrano come nel 1983 esistevano in Italia ben 3,1 negozi grocery ogni 1000 abitanti, il doppio della Francia e della Germania, più del triplo rispetto ad Olanda, Svezia ed Usa.

2008: LA SPESA ALIMENTARE ALL’INSEGNA DELLA SCELTA E DEL SERVIZIO
Dal 1983 al 2008: tutte le barriere e le limitazioni del passato – geografia, stagionalità, conservabilità - vengono superate. Attraverso un’offerta varia ed equilibrata, alla rivoluzione tecnologica e a una capillare azione informativa, l’industria alimentare contribuisce a una migliore qualità della vita del consumatore e alla promozione di uno stile di vita sano.
Lo scorso anno la spesa alimentare domestica degli italiani ha sfiorato quota 141 miliardi di euro, mentre quella extradomestica si è attestata a 64 miliardi di euro.
E’ interessante notare come, dal 1983 a oggi, la spesa alimentare domestica (in euro correnti) delle famiglie italiane è aumentata del +177,3%. Mentre in valori costanti l’incremento scende al +15,6%. La differenza di circa 160 punti fra le due percentuali si lega con tutta evidenza all’ “effetto prezzi”.
In parallelo, la spesa “totale” delle famiglie è cresciuta, nel periodo 1983-2007, del +362,8% in valuta corrente e del +58,1% in valori costanti. La differenza di oltre 300 punti tra le due percentuali dimostra un “effetto prezzi” vistoso, per la spesa degli italiani, quasi doppio di quello riscontrato per l’alimentare.
L’inflazione è salita dal 1983 al 2007 del +163%, contro un incremento dei prezzi alimentari del +147,1%. Può essere interssante notare che in parallelo il prezzo dei “servizi” è salito del +232,8%.
I prodotti alimentari hanno mostrato quindi, nel tempo, dinamiche di prezzo nettamente inferiori alle altre tipologie di prodotti e servizi del Paese. Non a caso, l’incidenza della spesa alimentare delle famiglie su quella totale scende, in valori correnti, dal 26,1% del 1983 al 17,7% del 2007 e, in valori costanti, dal 21,7% del 1983, al 15,9% del 2007.
Rispetto a 25 anni fa aumenta sensibilmente (raddoppia) la percentuale di spesa destinata ai consumi extradomestici, che passa dal 16% al 32%, e diminuisce quella destinata ai consumi domestici, che passa dall’ 84% al 68%.
Analizzando il “paniere alimentare” odierno scopriamo che, rispetto al 1983, è cambiato anche il modo di bere: scende notevolmente infatti il peso delle bevande alcoliche rispetto a quelle analcoliche Oggi - anche grazie alle politiche di comunicazione che hanno indirizzato il consumatore verso un uso responsabile di alcool - la spesa per acque minerali, bevande gassate e succhi (pari a 6 miliardi e 673 milioni di euro), è salita al 5,6% del totale, rispetto all’1,3% del 1983, superando quella per le bevande alcoliche (6 miliardi e 10 milioni di euro), che è scesa al 5,1%, rispetto al 7,4% del 1983.
Nello stesso arco di tempo la carne - pur rimanendo la prima voce di spesa nel paniere - passa dal 33,6% del 1983 al 22,1% del 2007. Aumenta invece la spesa per pane, pasta e altri cereali, che sale dal 10,7% all’attuale 18,8%.
Se “frutta e verdura” con il 16,7% segnano un calo rispetto al 1983, quando toccavano il 18,6% (-1,9 punti) non si può dire altrettanto del “pesce”, che raddoppia il suo peso relativo nella spesa alimentare degli italiani passando dal 3,2% al 6,1% del totale. Rimane stabile al 13,1% la spesa per “latte, formaggi e uova”. Oli e grassi scendono dal 5,2% del 1983 al 4,2% del 2007, zucchero, marmellata, sciroppi, cioccolata consolidano il proprio peso salendo dal 4,2% al 6,6%, mentre caffè, te e cacao scendono dal 2,3% all’1,4%.
Rispetto a 25 anni fa ci troviamo di fronte a uno scenario alimentare profondamente diverso, nel quale l’industria alimentare è riuscita a calarsi perfettamente, interpretando le diverse esigenze dei consumatori moderni. Così, alla crescita delle famiglie mononucleari e dei single ha risposto con le confezioni monodose, alla riduzione del tempo dedicato alla cucina ha offerto la soluzione “cibi pronti”.
Oggi si conferma la preferenza dei consumatori italiani per prodotti per i quali la componente di servizio - da parte dell’industria o della distribuzione - è molto elevata.
Tanto che circa un quarto (il 24%) del fatturato totale dell’industria alimentare italiana fa riferimento ormai ai cosiddetti prodotti del “tradizionale evoluto” (es: sughi pronti, oli aromatizzati, condimenti freschi, surgelati, prodotti e piatti pronti, verdure in busta ecc…) o a veri e propri “nuovi prodotti”. Mentre il 66% è relativo al cosiddetto alimentare “classico” e un altro 10% è assicurato da prodotti tipici e dal biologico.
E pensare che poco più di 2 decenni fa la situazione era ben diversa, con l’alimentare classico che copriva l’85% del totale e il tradizionale “evoluto” o i “nuovi prodotti” che con un 15% cominciavano ad affacciarsi nei consumi degli italiani.
Le tendenze emergenti che riguardano l’andamento dei consumi alimentari odierni sono riassunte da alcuni “carrelli” tipo, indici delle nuove abitudini degli italiani. Il “carrello pronto” (sughi e piatti pronti, surgelati di carne e di pesce elaborati, sostituitivi del pane, ecc..) ha mostrato negli ultimi 5 anni una crescita del 47%, un tasso di sviluppo elevato, superato però da altri due panieri di prodotti. Sono infatti il carrello “Etnico” e quello “Salute” a registrare le performance più intense relative alle quantità vendute: dal 2003 ad oggi l’Etnico è cresciuto addirittura del 60%, mentre il paniere dei prodotti per la “Salute” (prodotti dietetici, integratori alimentari), è aumentato nello stesso periodo del 59%. Un ulteriore tendenza delle nuove abitudini è riassunta dal carrello “Lusso”, composta da prodotti come caviale e salmone, champagne e spumanti, caffè in cialde e aperitivi monodose. In un quinquennio le vendite sono cresciute di oltre il 40%.
La spesa si orienta sempre di più verso la rapidità e la facilità del consumo. Tra le dieci categorie di prodotti che si sono distinte nel 2008 per l’andamento dei volumi in maggiore crescita troviamo i salumi affettati, in aumento del 18%, i piatti pronti che crescono del 16%, specialità pane e sostituitivi che aumentano del 14%: tutti prodotti legati alle nuove modalità di fruizione dei pasti che sempre più tendono ad escludere la fase domestica di preparazione dei cibi.

I CANALI DI VENDITA OGGI: LA CRISI ECONOMICA ORIENTA IL CONSUMATORE VERSO LA GDO
Nel 2007 le quote di mercato relative al peso dei canali di vendita alimentare (fresco e confezionato) vedono la distribuzione moderna (70,2%) prevalere nettamente sul dettaglio tradizionale (29,8%). Non era cosi 25 anni fa quando i numerosi negozietti di quartiere coprivano addirittura il 90% del totale mentre la grande distribuzione - che cominciava ad affacciarsi - si attestava ad appena il 10%.
Oggi i supermercati coprono il 41,6% della GDO, seguiti dagli ipermercati (13,1%), dalle superettes (8,7%) e dagli hard discount (9,7%). Mentre nel commercio alimentare classico, i negozi tradizionali si attestano al 19,5% e gli ambulanti al 10,3%
In particolare siamo di fronte a due grandi fenomeni. Da una parte la crisi economica e l’aumento dei prezzi delle materie prime hanno spostato nuovamente gli acquisti degli italiani verso i punti vendita della grande distribuzione. Oggi contiamo infatti ben 8.924 supermercati (+550% rispetto al 1983) e 535 ipermercati (+3000%, sempre rispetto al 1983). L’hard discount, formula che nel 1983 non esisteva, è arrivato a quota 3.543 unità, mentre la superette si attesta a 6.228 punti vendita.
Dall’altra rimane una costante del modello agroalimentare italiano la tendenza alla specializzazione della piccola rete distributiva, dove spesso si concentra la produzione locale di qualità. Nel 2007 troviamo 175.000 negozi tradizionali alimentari su 665.000 complessivi. Mentre gli ambulanti alimentari sono 29.000 su 127.000. I negozi tradizionali dunque resistono allo strapotere della GDO e riscuotono ancora i favori dei consumatori italiani, molto più che nel resto d’Europa. Tanto che anche dove sono presenti grande catene distributive, circa il 30% dei consumatori si rivolge al negozio di quartiere.